Chapter 1: Vesciche
Summary:
Andrea Vavassori & Matteo Berrettini
Notes:
(See the end of the chapter for notes.)
Chapter Text
Andrea si lascia cadere sulla panchina, esausto e frustrato.
Ha appena perso la finale del torneo e, nonostante abbia soltanto dieci anni, la sconfitta brucia nel suo petto. Non cederà alle lacrime, non darà questa soddisfazione al suo avversario, un tizio di Roma che non gli sta neanche troppo simpatico.
Avrebbe voluto che suo padre lo vedesse finalmente vincere, ma non ce l’ha fatta nemmeno stavolta.
Si fissa le mani e le vede arrossate, piene di vesciche e sporche di terra: se scoppierà a piangere, dirà a tutti che gli fanno malissimo le dita.
Intorno a lui tutti si congratulano con il nuovo campione, Matteo Berrettini, il romano.
Quando si sono incontrati sul campo prima della partita e si sono presentati, Andrea stava per dirgli che anche il suo fratellino si chiama Matteo, ma la sua timidezza gliel’ha impedito.
È talmente concentrato a fissare i palmi delle proprie mani che si accorge a malapena della presenza al suo fianco; qualcuno si è appena seduto sulla sua panchina e lo osserva.
«Devono farti malissimo le mani» sente dire, mentre solleva appena lo sguardo per controllare di chi si tratta.
Eppure quell’accento romano non ce l’hanno in tanti in Piemonte…
Matteo Berrettini gli sorride radioso e gli mostra le proprie dita.
Andrea nota che sono fasciate e ricoperte di cerotti, quasi tutte tranne due.
«Vuoi che ti aiuto a mettere le bende?» propone ancora Matteo, senza smettere di regalargli il più luminoso dei sorrisi.
Ride bene, lui, ha appena vinto!
Andrea si ritrova ad annuire impercettibilmente, e subito dopo si accorge che anche le sue labbra si sono incurvate appena verso l’alto.
Non ha senso, ha appena perso ed è triste, come può lasciarsi contagiare dall’entusiasmo del tizio che l’ha appena sconfitto?
Eppure osserva Matteo che corre a recuperare qualche ceroto e alcune garze dal suo borsone sulla panchina accanto, e si chiede come mai sappia già come fasciarsi le mani alla sua età.
In un attimo Matteo è nuovamente al suo fianco. «Dammi la sinistra, va’» lo incoraggia, per poi appoggiarsi la mano di Andrea sulla coscia e chinarsi per esaminarla.
Andrea si rende conto che non ha ancora aperto bocca e si dà dell’idiota: dovrebbe almeno ringraziarlo, cercare di dirgli qualcosa di gentile, fargli i complimenti per la vittoria…
Sussulta quando Matteo gli spalma qualcosa sulla mano.
«Scusa, lo so, fa male» bofonchia il romano.
Andrea fa spallucce e cerca di resistere. Per distrarsi, si costringe a dire qualcosa: «Come fai a sapere queste cose?» balbetta.
«Me l’ha insegnato il mio allenatore» racconta Matteo, senza smettere di tamponare le dita di Andrea. «Un giorno aveva un sacco di vesciche e mi ha chiesto di aiutarlo. Così ho imparato e ci scambiamo il favore!»
Andrea annuisce. «Bello...»
«Mi dispiace che hai perso, Andre’» cambia discorso Matteo all’improvviso.
«Wave» mormora Andrea, avvampando un po’.
«Cosa?»
«Chiamami Wave.»
Matteo ride. «Perché?»
«Perché sì, Berretta» risponde Andrea, sentendosi un pochino più a suo agio.
«Va bene, va bene, non ti offendere… fatto. Mi dai l’altra mano?»
I due sollevano il capo e i loro occhi di bambini si incrociano per la prima volta, sinceri come solo alla loro età possono essere.
Si scambiano un sorriso più aperto e amichevole stavolta, e mentre Andrea gli porge la mano destra per lasciarsela fasciare, sente il suo petto riempirsi di un calore indescrivibile.
Ha trovato un nuovo amico.
Notes:
[1° dicembre – Prompt: b) Mani.]
Anche quest’anno ci provo!
Cercherò di cimentarmi anche stavolta nell’impresa di completare tutto il Calendario dell’Avvento, sperando di ritrovare l’ispirazione che sembrava avermi abbandonato da un po’.
In questa prima piccola storia ho voluto immaginare il primo incontro tra Andrea Vavassori e Matteo Berrettini, perché anche se non so come sia andata realmente, di una cosa sono certa: si conoscono da quando erano bambini, sono cresciuti insieme e hanno condiviso tante esperienze dentro e fuori dal campo! :)
Grazie a chiunque abbia letto/leggerà, e sappiate che i commenti sono sempre benaccetti! *-*
Alla prossima ^^
Chapter 2: Feigling
Summary:
Dominic Thiem & Alexander Zverev
Notes:
(See the end of the chapter for notes.)
Chapter Text
Ehi Sasch,
sarai sorpreso di ricevere una lettera da me.
Però dopo essermi ritirato ho riflettuto su un sacco di cose, e mi sono reso conto di aver ignorato aspetti del nostro rapporto che semplicemente non volevo vedere.
Perché mi sento male alla sola idea di ferirti.
Se ripenso a tutto quello che abbiamo condiviso durante gli anni trascorsi insieme in tour, mi sento proprio uno stupido.
Sasch, l’ho sempre saputo. Ho sempre saputo cosa provavi per me, ne sono sempre stato consapevole anche perché era impossibile far finta di niente.
Eppure ci ho provato, come vedi ho tenuto sempre tutto per me e ho continuato a illuderti – mi spalmavo su di te, mi lasciavo stringere e lasciare lievi baci tra i capelli, fingendo di non accorgermi di quanto il tuo cuore batteva forte.
Solo adesso mi rendo conto che non avrei mai dovuto permetterti di innamorarti di me, perché non sono in grado di renderti felice e darti ciò che desideri.
La nostra amicizia ne ha risentito anche se concretamente non è successo niente che abbia cambiato le dinamiche tra noi; ma io lo so, l’ho sempre saputo, e questo basta per incasinare tutto.
Non voglio perderti, né ora né mai, per me sei fondamentale e non riesco a immaginare una vita senza poter sentire la tua voce, la tua risata, i tuoi sospiri.
Come potrei smettere di incrociare i tuoi occhi che sanno parlare per te? Sono quelli ad averti fregato, ne sono certo.
Chi non ti conosce bene, non è in grado di interpretarli, li trova freddi e distanti.
Io invece li ho sempre percepiti bruciarmi sulla pelle, ma ho preferito ignorarli, scacciarli, fingere che non mi desiderassero.
Ma la verità viene sempre a galla, anche quando ti illudi che basti nascondere la testa sotto la sabbia come ho fatto io.
Forse se io e te ne avessimo parlato, Sasch, adesso non sentirei questo peso sul cuore e non mi sentirei in colpa nei tuoi confronti.
O forse sarebbe stato troppo imbarazzante affrontare l’argomento, altrimenti saresti stato tu a farlo.
Ma ce lo siamo sempre detti, Sasch, che siamo due codardi. Ci abbiamo scherzato quando io ho vinto quel maledetto US Open contro di te e poi mi sono arreso, e ci ridiamo su ogni volta che tu molli sul più bello, in finale agli Slam.
E quale potrebbe essere il finale perfetto per due codardi, se non una verità che fluttua inconsistente tra noi senza che nessuno abbia mai il coraggio di affrontarla?
E ora ti sembrerà che sono cambiato, che ho preso coraggio e che ho deciso di parlartene.
Invece no, ti sbagli, sono troppo coerente per commettere un simile errore.
Finirò di scrivere questa lettera, sarò sincero fino in fondo, ma probabilmente la brucerò subito dopo.
Non so cosa farò di queste stupide parole, ma di sicuro non ti permetterò di leggerle. Non mi concederò il lusso di ferirti ancora, Sasch, perché ti amo troppo.
Non ti amo come tu vorresti, ma quello che sento per te è enorme, infinito, sconfinato – fatico a descriverlo perfino a me stesso.
E ripeto: la sola idea di ferirti mi distrugge, quindi preferisco che questa verità distrugga soltanto me.
Perché sono certo che, ingenuo come sei, pensi che io non me ne sia mai accorto, credi di averla scampata, sei convinto di aver scampato il pericolo.
Sei sempre stato così innocente…
E ti lascerò in quella sicurezza, lascerò che ti dimentichi di quanto follemente mi amavi, non permetterò a nessuno di insinuarsi nel tuo benessere.
Perché una vita intera con questo peso non ti permetterò di sprecarla, sarebbe inutile, controproducente, ancora più doloroso.
Mi sono rivelato un codardo – ma questo già lo sapevamo entrambi. Ma ora mi scopro anche egoista.
Egoista perché mi sono voluto sfogare con te a tua insaputa, perché non voglio renderti partecipe di una verità che ti riguarda in prima persona, perché voglio proteggerti anche se ormai sei un uomo che ha dovuto affrontare e affronterà dolori peggiori di questo.
Ma sono io che non voglio soffrire, perché senza di te mi sentirei incompleto, vuoto, insensato.
E pur di evitare che ciò accada, mentirò.
Mentirò fino alla fine, mentirò ogni volta che nel buio mi sussurrerai ti amo pensando che io dorma, mentirò ogni volta che prolungherai di un fatidico istante un nostro abbraccio.
Mentirò Sasch, perché ti amo troppo per viverti lontano.
Ci siamo sempre raccontati un sacco di cose, e adesso so che oltre a essere codardi, siamo anche degli ottimi bugiardi.
Ci siamo sempre mentiti, che senso avrebbe smettere proprio ora che trascorriamo meno tempo insieme?
È meglio godersi i nostri attimi senza appesantirli o sprecarli.
Perché ogni istante con te, Sasch, è un istante sacro.
Domi
Notes:
[2 dicembre – Prompt: b) Lettera mai inviata.]
Il titolo della storia significa “codardo” in tedesco.
Chapter 3: Cashmere
Summary:
Maria Sakkari/Donna Vekić - Donna Vekić & Borna Ćorić
Notes:
(See the end of the chapter for notes.)
Chapter Text
Maria la osserva da lontano, con la coda dell’occhio, fingendo di chattare con qualcuno al cellulare.
Il giardino che costeggia i numerosi campi da tennis è immenso, un’area verde interamente dedicata ai giocatori che lei ha sempre amato particolarmente, tanto da sfidare le temperature decisamente rigide pur di stare all’aperto a godersi quel panorama pazzesco.
Evidentemente non è l’unica a cui piace quel posto nonostante faccia piuttosto freddo, dato che anche Donna se ne sta seduta su una poltroncina diversi metri più in là, intenta a chiacchierare con Borna.
Maria registra l’abbigliamento dei due, i loro gesti, le loro risate e la complicità che li lega – e, deve ammetterlo, è piuttosto gelosa.
All’improvviso Donna si alza e molla un pugno sul braccio del suo connazionale, correndo via poco dopo mentre lui balza in piedi per inseguirla. Gridano qualcosa nella loro lingua madre e in pochi istanti scompaiono oltre la vetrata che conduce alla sala comune dei giocatori.
Maria sospira e si dice che forse dovrebbe davvero trovare qualcuno con cui chattare, anziché fare fantasie sulla sua collega croata.
Qualcosa però attira la sua attenzione e la costringe a concentrarsi meglio: su una delle poltroncine su cui poco prima sedevano Donna e Borna è rimasta abbandonata quella che sembra una sciarpa rossa.
Maria si guarda intorno, poi si alza e raggiunge l’oggetto, sollevandolo cautamente con entrambe le mani.
Il tessuto è morbido, presumibilmente cashmere pregiato, e Maria cerca di ricordarsi chi fosse seduto su quella poltroncina tra i due croati.
Non ne è sicura, così lancia un’occhiata verso la vetrata socchiusa e pensa che dovrebbe entrare a controllare se i due sono ancora lì.
Poi un’idea malsana, impossibile da frenare, le si forma nella mente e le dipinge un ghigno sulle labbra.
Non dovrebbe neanche pensarci, sa benissimo che è una follia e che sta sbagliando tutto, ma la tentazione è troppa.
Ripiega velocemente la sciarpa e la porta con sé, per poi infilarla in fretta nel proprio borsone; torna a sedersi con nonchalance sulla poltroncina e afferra il cellulare con il cuore a mille, sperando che nessuno l’abbia vista agire come una ladra.
Cerca il contatto di Donna e lo fissa per qualche istante, lasciando che le ultime remore la abbandonino prima di cominciare a digitare un messaggio.
Si pente subito dopo averlo inviato, ma se lo cancellasse Donna vedrebbe comunque che le aveva scritto qualcosa.
Pazienza, ormai è andata, non può più tornare indietro.
Ho qualcosa che ti appartiene, passa in camera mia stasera.
813.
Donna legge quel messaggio con un sorrisetto, per poi porgere il cellulare a Borna.
I due amici sono seduti attorno a uno dei tavolini della sala comune; mangiucchiavano qualche snack e aspettavano.
Aspettavano proprio che lei abboccasse.
«Caspita, pensavo che si sarebbe limitata a venire qui per restituirtela» commenta Borna divertito.
«Invece a quanto pare stasera si scopa!» esclama Donna senza giri di parole.
«La tua solita classe, amica mia, complimenti» la rimbecca il ragazzo.
«Insomma, con te posso essere me stessa o no? Se fossi un uomo, non mi avresti rimproverato per come mi sono espressa!»
Borna solleva le mani in segno di resa. «Va bene, va bene, non cominciare.»
«Sai perfettamente che Maria mi piace da impazzire» sussurra Donna con gli occhi che le brillano.
Il moro annuisce e sospira. «Davvero? Non l’avrei mai detto» la prende in giro con un lieve sorriso. «L’importante è che domani mi tu mi restituisca la sciarpa, ci tengo, è un regalo di Niko!»
«Tranquillo, domani te la riporto» lo rassicura, per poi aprirsi in un sorriso malizioso.
«Donna! Non avrai mica intenzione di usare la mia sciarpa per fare giochetti erotici con Sakkari?!»
«Certo che sì! Come l’hai capito?» Lei scoppia a ridere, poi gli schiocca un bacio sulla guancia e si alza. «Se non fossi lesbica, ti chiederei di sposarmi. Lo sai, vero? Soprattutto da quando ti sei tagliato i capelli...»
«Io sicuramente ti direi di no» borbotta Borna. «Soprattutto perché i capelli me li hai tagliati tu.»
Sono quasi le undici di sera quando Maria sente bussare alla porta.
Si dà un’ultima occhiata allo specchio e cerca di rilassarsi: è fin troppo evidente il nervosismo che sta provando, in fondo deve soltanto restituire una sciarpa.
Chi vuole prendere in giro?
Si avvia verso l’ingresso, sentendosi ridicola ad aver indossato shorts e top striminziti solo per mettersi in mostra di fronte a Donna – per quanto ne sa, lei e Borna potrebbero essere fidanzati…
Apre la porta con il cuore in tumulto, trovandosi faccia a faccia con una sorridente e bellissima Donna.
Nota subito il leggero velo di trucco sul suo viso, i capelli biondi lisci e sciolti sulle spalle, gli abiti semplici ma aderenti sui punti giusti di quel corpo spettacolare…
«Ciao! Cosa ho perso?» esordisce la croata.
Maria si riscuote e ricambia il sorriso. «Vieni dentro, ti faccio vedere… è una sciarpa» replica, lasciandola passare per poi richiudere la porta.
«Una sciarpa?»
«Sì, rossa. Credo sia di cashmere» spiega Maria, chinandosi strategicamente sul borsone per recuperare l’oggetto.
Sente Donna espirare brevemente e il cuore le martella ancora più forte: possibile che la stia guardando?
«Ah, quella è di Borna, non è mia!» Donna fa qualche passo avanti e si ferma a pochi centimetri da lei.
Maria si raddrizza con la sciarpa in mano e si volta con cautela verso Donna, trovandola decisamente vicina a sé. «Gliela restituisci tu per me?» mormora.
«Certo.» La croata afferra un lembo del tessuto e cerca lo sguardo dell’altra. «Oppure se preferisci posso chiamarlo e chiedergli di passare a prenderla. Forse avresti preferito lui?»
Maria sgrana gli occhi e la bocca le si riempie di saliva; cerca di deglutire, ma ogni gesto banale sta diventando sempre più complicato per lei.
Scuote piano la testa. «Ma che dici?»
Donna ridacchia e carezza piano il morbido tessuto. «Altrimenti potremmo tenerla...»
«Come?»
Donna non risponde, fissa Maria negli occhi con un’intensità quasi insopportabile, poi fulminea azzera la distanza tra i loro volti e la bacia sulle labbra.
Maria risponde immediatamente a quel gesto, confusa e incredula, ma incapace di reprimere il desiderio che ormai da tempo la sta mangiando dentro.
Si getta sul corpo tonico di Donna e spinge la lingua nella sua bocca senza alcuna esitazione, sentendo che quella è la cosa giusta da fare.
Lo è sempre stata.
Donna si scosta da Maria e nei suoi occhi scorge fiamme indomabili, segno di un desiderio condiviso da entrambe.
Quella consapevolezza incendia la croata, la inonda di un calore destabilizzante che la fa quasi barcollare; con una risatina si abbandona contro Maria, affondando il viso tra i suoi capelli e inspirando il suo aroma dolce, quello che l’ha sempre fatta impazzire.
Avverte le braccia forti della greca circondarle i fianchi e le sue dita sulla schiena. «Quindi?» mormora Maria al suo orecchio.
«Chiamiamo Borna per restituirgli la sciarpa?» scherza Donna.
«Se vuoi...»
«Mmh...» Donna lascia scorrere le dita sul tessuto della sciarpa, poi fa un passo indietro per incrociare nuovamente gli occhi di Maria. Le porge l’oggetto e le sorride maliziosa.
«Cos’hai in mente?» domanda la greca.
Donna le prende fulminea i polsi e li avvolge nella stoffa, legandoli delicatamente.
Gli occhi di Maria trasudano malizia. «Borna non sarebbe d’accordo...»
«Non siamo mica obbligate a dirglielo» sussurra Donna al suo orecchio, per poi chinarsi a lasciare lievi baci sul collo.
Maria sospira sotto di lei. «E se dovessimo sporcarla o romperla?»
La croata la spinge leggermente verso il letto. «Sei così focosa sotto le lenzuola?»
«Dipende dalla mia partner...»
Donna la guarda negli occhi, stringendola tra le braccia. «Non vedevo l’ora di averti, Maria Sakkari» dice serissima.
Le labbra della greca si schiudono. «Sono sempre stata tua» mormora con una sincerità disarmante.
A quel punto Donna smette di esitare e la spinge con decisione sul letto senza staccarle gli occhi di dosso.
Notes:
[3 dicembre – Prompt a) Una sciarpa smarrita.]
Chapter Text
Fuori dalla finestra la neve si posa lieve sul terreno, sui rami degli alberi, sulla carrozzeria delle auto, mentre all’interno l’ambiente è caldo, accogliente, sicuro.
La legna arde e scoppietta nel camino, illuminando la stanza, e Sascha semplicemente osserva quello spettacolo raro.
Raro nella sua vita frenetica, nel suo viaggiare continuo per inseguire il sole, le belle stagioni in giro per il mondo, per disputare tornei all’aria aperta tra umidità e situazioni al limite dell’ingestibile.
A lui il caldo piace, gioca meglio, si trova a proprio agio. Adora il mare, ama nuotare e trascorrere un po’ di tempo in totale relax a prendere il sole.
Quest’anno però ne ha avuto abbastanza e ha deciso di trascorrere l’off season a casa, al freddo, a godersi la neve e le giornate talmente cupe da parere cortissime.
Le fiamme che ardono nel caminetto sono quasi accecanti, ma Sascha non riesce a distogliere lo sguardo: sono ipnotiche, ricche di sfumature aranciate e violacee, ogni tanto gli sembra di scorgere anche qualcosa di azzurro.
Allunga le mani fredde e si bea della sensazione di quel calore che, piano, le intiepidisce e le rigenera.
Si muove appena sulla poltrona, sciogliendo l’intreccio delle sue lunghe gambe e stiracchiandole un po’. Non è abituato a stare fermo a lungo, ma ogni tanto vuole concederselo, sa di averne bisogno.
Per ricaricarsi, per rinascere, per ripartire più forte.
Con un sorriso si rende conto che fino a quel momento aveva decisamente sottovalutato le vacanze invernali sulla neve.
Distoglie lo sguardo dal fuoco soltanto quando il suo cellulare vibra; lo sblocca e legge il messaggio appena ricevuto.
Sophia gli ha appena proposto qualcosa che lo fa sghignazzare: giocare a tennis sulla neve.
Almeno saremo allo stesso livello e non potrai vincere facilmente, gli ha scritto con tanto di emoji che fanno la linguaccia in allegato.
Sascha sposta gli occhi sulle fiamme che ancora danzano allegre nel camino, poi risponde a Sophia.
Ripone il telefono in tasca e si sistema più comodo sulla poltrona: forse domani accetterà la sua proposta, ma oggi vuole soltanto godersi quelll’attimo di solitudine.
Lui e Sophia si vedranno più tardi, certo, ma per il momento Sascha ha bisogno di rinchiudersi in quel bozzolo rassicurante e non pensare a niente.
Torna a fissare la legna che arde, le fiamme che scoppiettano, la cenere sempre più copiosa, e sente che niente potrebbe rovinare quell’istante perfetto.
Notes:
[4 dicembre – Prompt: a) Fuoco che arde nel caminetto]
Chapter 5: His hell
Summary:
Ben Shelton & Flavio Cobolli
Chapter Text
Quando Ben entra nella stanza, la trova quasi deserta, fatta eccezione per Flavio.
Assente, isolato, con le cuffie alle orecchie e il capo abbandonato all’indietro contro la spalliera della poltroncina.
Ben si ferma a osservarlo, certo che il suo collega non l’abbia sentito entrare né l’abbia visto, dato che tiene gli occhi chiusi.
Sembra addormentato, ma il giovane statunitense è certo che sia sveglio.
Sveglio ma su un altro pianeta, come gli capita un po’ troppo spesso ultimamente.
Ben è preoccupato, nonostante non gliel’abbia mai detto chiaramente, tra loro non esistono sentimentalismi o momenti troppo seri; ridono, si divertono, vivono attimi di complicità e leggerezza senza porsi troppe domande, ma parlare di argomenti tanto personali è tutta un’altra faccenda.
Il problema è che Flavio sembra aver perso leggerezza, spensieratezza, genuinità… Ben non si spiega come questo sia potuto accadere, e ancora meno sa come gestire la questione.
Si è fatto delle idee, certo, ma più lo osserva e più si sente confuso.
Il tennista romano ha i capelli spettinati, il viso segnato da qualcosa che potrebbe essere stanchezza o stress, e in generale le sue iridi azzurre hanno perso la luminosità che avevano quando Ben l’ha conosciuto – lo sa anche se adesso non può vederle, celate dietro le palpebre pesanti.
Leggermente indeciso sul da farsi, lo statunitense espira e si avvicina cauto al collega, posandogli delicatamente una mano sul braccio.
Flavio sussulta appena e solleva le palpebre. «Eh?» bofonchia.
«Che ascolti?» chiede Ben ostentando disinvoltura. Senza attendere una risposta, si siede sul bracciolo della poltrona e strappa uno degli auricolari dall’orecchio di Flavio, infilandolo nel proprio.
Il tennista americano rimane colpito da una melodia triste che gli pare familiare, poi alcune parole catturano la sua attenzione, facendogli riconoscere all’istante.
Help me out of this hell
Your love lifts me up like helium
Ben si volta a guardare Flavio, trovandolo immobile nell’atto di allungare la mano per riprendersi l’auricolare.
Le guance del romano si sono colorate di rosa acceso, ma i suoi occhi sono sgranati, vuoti, spenti come spesso accade ultimamente.
«Stai ascoltando la mia playlist?» chiede Ben, tentando di alleggerire l’atmosfera con una risata.
Si aspetta che l’altro lo mandi al diavolo, ma Flavio non risponde e si limita a borbottare qualcosa tra sé e sé in italiano.
Ben lo osserva meglio, sfilandosi l’auricolare e lasciandolo cadere in grembo all’amico.
Lo fissa stranito e ripete: «Fla, stai ascoltando la mia playlist? Sul serio?»
«E anche se fosse?» replica l’altro in tono seccato.
Ben allarga le braccia e scuote il capo. «Ti ha sempre fatto schifo la mia musica, hai sempre detto che quelle lagne italiane che senti tu sono migliori...»
«Solo gli idioti non cambiano mai idea» taglia corto il romano, facendo per alzarsi dalla poltrona.
Ben glielo impedisce, appoggiandogli una mano sulla spalla sinistra e l’altra sul braccio destro, contorcendosi in una posizione piuttosto scomoda. «Dai, non ti sarai mica incazzato, bro?»
«No, però lasciami stare...»
Ben aggrotta la fronte e cerca il suo sguardo, senza però riuscire a incrociarlo. Flavio è sfuggente, disinteressato, insofferente.
«Non ti riconosco più» si lascia sfuggire lo statunitense, seriamente in apprensione per quel suo atteggiamento sempre più anomalo.
Flavio si stringe nelle spalle. «Vabbè, vado» afferma, cercando nuovamente di alzarsi.
«Come vuoi… però, bro, se c’è qualcosa che ti preoccupa, parlane con qualcuno. Cioè...» Ben si gratta imbarazzato la nuca. «Se vuoi, io ci sono, ma va bene chiunque. L’importante è non tenerti tutto dentro. Io non so un cazzo di quello che ti passa per la mente, ma questo mestiere può fotterci il cervello se non stiamo attenti. Non dobbiamo lasciarci travolgere dal successo, dalle aspettative degli altri e di noi stessi, dalla pressione… insomma, non è che io sia uno strizzacervelli eh, però non voglio più trovarti a deprimerti con canzoni che neanche ti piacciono!»
Flavio sembra non averlo neanche ascoltato, si fissa le unghie della mano destra con un’attenzione maniacale, evitando accuratamente di incrociare lo sguardo dell’amico.
Ben sospira e infine sposta la mano che ancora gli teneva appoggiata sulla spalla, facendogli capire che può andarsene quando vuole.
Non può trattenerlo oltre, neanche se lo volesse.
In fondo loro due non hanno così tanta confidenza, non si sarebbe neanche dovuto permettere di parlargli in quel modo.
Flavio si mette in piedi e raccatta gli auricolari, imprecando quando uno striscia quasi sul pavimento. «Ci vediamo» conclude, avviandosi con passo strascicato verso la porta.
Ben lotta per non sbilanciarsi sulla poltrona, rimanendo miracolosamente appollaiato sul bracciolo mentre lo osserva camminare con le spalle curve.
Il suo cuore è un po’ più pesante ogni volta che cerca di interagire con Flavio e fallisce miseramente.
Rimane fermo a fissare la soglia oltre cui il tennista italiano è scomparso poco prima, chiedendosi se il suo amico sarà mai in grado di ritrovare se stesso.
Ben semplicemente preferisce pensare che si sia perso, perché non può accettare che questo sia il vero Flavio.
Afferra il cellulare per controllare l’ora e nota una notifica: Flavio gli ha inviato un messaggio.
Grazie bro
Per avermi prestato la playlist
E per tutto il resto
Gli ha scritto ciò che non è riuscito a dirgli a voce, che non è riuscito a esprimere quando erano insieme, e un po’ Ben se ne dispiace: questo significa che il loro rapporto è davvero vuoto, inconsistente, inutile.
Poi scuote il capo e si dice che non è vero, perché Flavio in fondo ha ascoltato le sue parole nonostante non sia stato capace di rispondergli sul momento. Ha apprezzato il suo gesto, ha accettato il suo aiuto, ha lasciato aperto uno spiraglio nel solido muro che ha eretto tra loro – tra se stesso e il resto del mondo, a dirla tutta.
E Ben, che a discapito di quanto possa sembrare in apparenza alle coincidenze non crede, sente che le parole della canzone di Sia siano un segno del destino.
Se ha sentito proprio quelle nello specifico, un motivo c’è senz’altro.
Help me out of this hell
Your love lifts me up like helium
È un grido d’aiuto, un tentativo disperato di cercare il supporto di qualcuno, la richiesta di chi non sa come si fa ad affidarsi a una mano amica.
Ben sorride con una punta di amarezza e apre l’app di Spotify, digitando il titolo di una canzone per poi metterla in riproduzione.
L’atmosfera malinconica riempie la stanza, e Ben vi si immerge completamente, consapevole che aiutare Flavio a uscire dall’inferno in cui si trova non sarà affatto semplice.
Eppure ci proverà, ci metterà tutto se stesso, lo solleverà come fosse elio.
Notes:
[5 dicembre – Prompt: c) “Help me out of this hell. Your love lifts me up like helium” (Helium – Sia)]
Chapter 6: Ključ
Summary:
Doubles players trying to solve a mystery :D
Notes:
(See the end of the chapter for notes.)
Chapter Text
Mate si rigira la chiave tra le dita, osservandola con fare scettico; si guarda intorno nello spogliatoio e nota che diversi dei suoi colleghi sono ancora presenti.
Si schiarisce la gola e sventola l’oggetto in aria: «Di chi è questa?»
Tutti si voltano a lanciargli occhiate confuse, stringendosi nelle spalle e scuotendo il capo.
«Dove l’hai trovata?» gli chiede Nikola, avvicinandosi a lui.
«Nella tasca della giacca. Di’ un po’, per caso l’hai messa tu?» indaga Mate, pronunciando le parole in croato e abbassando il tono di voce per non farsi udire dai presenti.
Nikola ridacchia. «Secondo te ho bisogno di questi giochetti per attirarti nella mia stanza?» lo prende in giro.
Mate sospira. «Sì, ma allora di chi è? Non c’è neanche un portachiavi, un numero...»
«Qualcuno vorrà adescarti per una notte di passione!» esclama John Peers sghignazzando.
«Piantala» sibila Mate, continuando a fissare l’oggetto tra le sue mani.
«Vuoi dirci che non ti faresti una scopata con una bella collega?» interviene il suo amico Michael Venus.
Il croato si limita a sollevare il dito medio nella sua direzione, mentre nota Nikola che stenta a trattenere le risate.
«Poverino, lasciatelo in pace! Sul serio, e se qualcuno l’avesse persa e ora non sapesse come rientrare nella sua stanza?» si fa avanti Jamie Murray.
«In albergo hanno le copie delle chiavi, il problema non si pone» replica Peers.
«Secondo me è uno scherzo» suppone Matthew Ebden, caricandosi il borsone in spalla. «E l’artefice non sono io, Pavić, mi dispiace deluderti» conclude, per poi lasciare lo spogliatoio.
«Così però non mi state aiutando! Che cosa dovrei fare?» Mate scuote il capo sconsolato.
«Beh...» Nikola gli picchietta sulla schiena. «Non ti resta che provare ad aprire tutte le porte finché non trovi quella giusta!»
«Sei matto? E se non fosse una porta del nostro albergo?»
Venus dà il cinque a Nikola. «Ottima idea!» esclama divertito.
«Tanto vale provarci, no?» cerca di incoraggiarlo Murray.
«Che palle, ma perché queste stronzate devono capitare tutte a me?!» Mate ficca la chiave in tasca e lascia la stanza, dopo aver recuperato velocemente le proprie cose.
Nikola scambia un’occhiata con gli altri tennisti e sospira. «Lo aiuto, altrimenti finirà per perdere la testa...»
«Come se ce l’avesse mai avuta, una testa» commenta ironico Peers.
Venus scoppia a ridere. «Bella questa, Peersy!»
«Siete sicuri che non si arrabbierà troppo quando scoprirà che sapevamo tutto dall’inizio?» chiede timoroso Jamie Murray, lanciando un’occhiata preoccupata a Nikola.
«Beh, allora facciamo in modo che non lo scopra!» afferma il croato, per poi salutare tutti e uscire a sua volta.
«Ma vaffanculo, la porto in reception e fine della storia!» sbotta Mate, salendo la rampa di scale che li condurrà all’ultimo piano.
È da un quarto d’ora che prova ad aprire tutte le porte dell’albergo, beccandosi anche le occhiatacce di chi l’ha visto provare a entrare nella camera sbagliata.
«Dai, mancano solo queste, tanto vale tentare… se poi non la troviamo, andiamo in reception o parliamo con gli organizzatori del torneo» lo rassicura Nikola, stringendogli per un attimo il braccio.
«Sì, hai ragione, ma io volevo riposarmi! Invece mi tocca gironzolare come un ladro per tutto il fottutissimo albergo!»
Intanto i due hanno imboccato il corridoio su cui si affacciano numerose camere.
Mate si guarda intorno e si accosta alla prima serratura, infilandoci cautamente la chiave. Niente da fare.
Nikola sospira. «Non si apre?»
Mate scuote il capo. «Immaginati se c’è qualcuno dentro… spero non abbia sentito il rumore!»
Il più grande ridacchia e lo segue fino all’uscio successivo. Trattiene per un attimo il fiato, ben sapendo cosa sta per succedere.
Mate lancia un’altra occhiata intorno a sé, poi prova a inserire la chiave. Entra perfettamente.
Si immobilizza e cerca gli occhi del compagno. «Cazzo, mi sa che l’abbiamo trovata» sussurra.
«Sul serio?» sibila Nikola. «Che aspetti? Apri!»
«No!» Il più giovane estrae la chiave e accosta le nocche alla porta. «Prima busso, mica posso invadere la stanza di un altro!»
«E se non c’è nessuno?»
«Mi segno il numero della stanza e lo vado a dire al receptionist» spiega Mate con ovvietà.
Nikola si passa una mano tra i capelli castani e gli regala un sorriso dolce e luminoso. «Che brav’uomo ho scelto, onesto, leale...»
«La smetti di prendermi in giro?» Mate picchietta sul legno massiccio e si schiarisce la gola. «C’è qualcuno? Avete perso una chiave per caso?» chiede, alzando il tono di voce.
Il corridoio rimane immerso nel silenzio per un po’, mentre i due croati si scambiano occhiate perplesse.
«Riprova» suggerisce Nikola, digitando qualcosa sul cellulare.
Mate alza gli occhi al cielo. «Un’altra volta e basta, poi portiamo tutto di sotto e...»
Non fa in tempo a terminare la frase né a bussare di nuovo, che la porta si spalanca improvvisamente.
«Hola! Finalmente siete arrivati!»
Mate sgrana gli occhi e la chiave che ancora teneva in mano gli cade per terra; sbatte le palpebre un paio di volte, faticando a mettere a fuoco la persona di fronte a lui. «Tu?!» si lascia sfuggire poi.
«Proprio io, Marcelo Arévalo in persona! Dai, entrate o no? Mike è già arrivato!» replica il salvadoregno con disinvoltura, facendosi da parte per lasciarli passare.
«Mike?» gracchia Mate sempre più allibito.
«Ehilà!» saluta un sorridente Michael Venus, non appena i due croati raggiungono l’interno della stanza.
Mate gli si avventa contro e lo afferra per le spalle. «Tu sapevi tutto, pezzo di merda?» abbaia in faccia al suo amico.
Michael ride e lo abbraccia, scompigliandogli i capelli. «Ma certo! Era tutto organizzato da me e Marcelo!»
Mate se lo scrolla di dosso e si volta a guardare Nikola. «E tu? Lo sapevi anche tu?»
Il suo compagno distoglie lo sguardo. «Beh, ecco, no, io...»
«Lo sapevano tutti tranne te, Mate! Sorpresa!» taglia corto Marcelo con un ampio sorriso.
«Traditori, siete tutti degli infami!» protesta Mate, poi stringe i pugni. «Aspetta, lo sapevano tutti… tutti chi?»
«Non importa, dai» tenta di minimizzare Nikola.
«Più o meno tutto il tour. Però per lo più doppisti, tranquillo!» racconta Arévalo senza scomporsi.
«Tranquillo? Dovrei stare tranquillo mentre mezzo ATP tour mi prende per il culo?!»
«Perché gliel’hai detto, Chelo? Non ce n’era bisogno...» sussurra Nikola, mettendosi le mani tra i capelli.
«Ah no?» chiede candidamente Marcelo.
Venus non riesce più a smettere di ridere, è piegato in due sul divanetto posto sotto la finestra, mentre Mate continua a sbraitare improperi irripetibili.
«Ma si può sapere perché cazzo avete architettato questa stronzata?» chiede la vittima del presunto scherzo, lanciando occhiate di fuoco a tutti i presenti.
«Te lo spiego subito!» si offre Marcelo, appoggiandogli le mani sulle spalle. «Volevamo solo avere un momento tranquillo per parlarti di una cosa importante.»
Mate incrocia le braccia sul petto. «E quindi avete ben pensato di farmi incazzare prima, ottima idea!»
«Non era previsto che ti arrabbiassi, o meglio, speravamo di no» spiega il salvadoregno.
«Di cosa volete parlarmi?» taglia corto il croato.
«Amico mio, vedi, volevo dirti che ho proposto a Niko di giocare con me l’anno prossimo» interviene Venus, dopo essersi ripreso dalle risate di poco prima.
«Questo lo sapevo già, ma non ti ho ancora dato il permesso» replica in tono velenoso.
«Non abbiamo bisogno del tuo permesso, mi dispiace deluderti» dice Nikola serissimo.
«E allora cosa cazzo ci faccio qui?»
Marcelo continua a sorridergli. «Perché sono io che voglio chiedere al tuo splendido fidanzato il permesso di giocare con te l’anno prossimo.»
Mate lo fissa stranito. «Tu… vuoi giocare con me?!»
«Proprio così! Sei fortissimo, e poi sono sicuro che ci divertiremo un sacco!» L’entusiasmo di Marcelo si riversa nella stanza come un fiume in piena, sciogliendo tutte le tensioni e alleggerendo l’atmosfera.
«Sì, ma non c’era bisogno di fare tutto questo casino per chiedermelo!» protesta Mate.
«È stata una mia idea, volevo farti uno scherzo come ai vecchi tempi!» ammette Nikola, dandogli un’affettuosa pacca sulla spalla.
«Che stronzo, non ci posso credere!» Il più giovane dei croati si copre il viso con le mani, ma ormai non riesce più a rimanere serio.
«Quindi? Sì o no?» vuole sapere Marcelo, sempre più impaziente ed eccitato.
Mate lo guarda da capo a piedi, scettico. «Si potrebbe provare, ma prima devo chiedere consiglio a Rojer. Ti ha sopportato abbastanza a lungo da sapere a quali rischi vado incontro.»
«Jul non avrà una sola parola negativa da dire su di me, ci metto la mano sul fuoco» dice Marcelo con fermezza, enfatizzando le sue parole con tanto di mano sul cuore.
«Allora troverò qualcuno che non è di parte.»
Nikola gli circonda le spalle con le braccia e ridacchia. «Non farla così difficile! Ti basti sapere che il tuo splendido fidanzato è completamente d’accordo.»
«Com’è che io devo avere la tua benedizione per giocare con questo qui e tu puoi fare quello che vuoi con Venus?» abbaia Mate.
«Stiamo già cominciando male: questo qui è il grande, unico e solo Marcelo Arévalo!» si pavoneggia il salvadoregno, contagiando tutti con una delle sue risate.
«Stanno già litigando: andrà tutto a meraviglia!» conclude Venus in tono sognante.
Nikola osserva Mate e Marcelo battibeccare e sospira. «Già, e sai questo cosa significa?»
Michael scuote il capo.
«Che non li batteremo mai!»
Notes:
[6 dicembre – Prompt: b) Chiave.]
Il titolo della storia significa “chiave” in croato.
Chapter 7: Zielsverwanten
Summary:
Jul and Chelo acting like kids XD
Notes:
(See the end of the chapter for notes.)
Chapter Text
Jean-Julien Rojer sta pedalando sulla cyclette per defaticare il suo corpo dopo l’allenamento quando Marcelo Arévalo entra in palestra come un uragano.
Jul già sorride, osservandolo mentre saluta calorosamente tutti i presenti e scambia qualche parola con tutti.
Quando Marcelo lo individua, si fa strada verso di lui sventolando qualcosa nella sua direzione.
«Finalmente ti ho trovato!» esclama il salvadoregno ad alta voce.
Jul solleva una mano per salutarlo, poi indica l’oggetto che l’altro stringe in mano. «Che roba è?»
«Tatuaggi!» spiega tronfio Marcelo, fermandosi proprio al suo fianco per mostrargli la cartellina piena di immagini colorate.
Jul aggrotta la fronte. «Dove li hai presi?»
«Da mio figlio. Mi ha detto di portarli allo zio Jul perché vuole che ce ne facciamo uno uguale» ride il più giovane, ma Jul può sentire che la sua voce è intrisa di orgoglio.
L’olandese osserva meglio le immagini, continuando a pedalare. «Ci facciamo questo drago? È fighissimo!» propone sempre più divertito.
«Non ce ne sono due uguali. Una farfalla?»
Jul ride. «Ma Chelo, ti sei dimenticato che io ho paura delle farfalle?»
«Ah, già! È una paura talmente stupida che l’avevo dimenticata...»
L’olandese gli molla uno scappellotto e lo fulmina con un’occhiataccia. «Piantala, altrimenti sarò costretto a lasciare tuo figlio orfano!»
«Per così poco? Comunque… che ne dici di questi teschi messicani?» Marcelo indica due immagini identiche, però fatte a specchio.
«Bellissimi, mi piacciono. Assomiglia a quelli che avevo un tempo sulle maglie, ti ricordi?»
Il salvadoregno annuisce. «Certo che mi ricordo, eravamo alle Finals insieme!»
«Mi mancano...» Jul osserva lo schermo della cyclette. «Quattro minuti e mezzo, poi sono tutto tuo!»
«Vamos, ti aspetto al bar?»
«Vamos Chelo!» conferma Jul.
Jul raggiunge Chelo al bar dopo una doccia veloce, lasciandosi cadere sulla sedia stanco ma soddisfatto. «Allora» esordisce. «Dove ce lo facciamo questo bel tatuaggio?»
Marcelo ride. «Sul braccio?»
L’olandese solleva la manica della felpa e si esamina il polso sinistro, poi lascia scorrere gli occhi sul resto dell’avambraccio. «Lo sai che se ci facciamo lo stesso tatuaggio vuol dire che siamo anime gemelle?» chiede, ostentando un tono solenne.
«L’ha detto anche mio figlio. Ha guardato un cartone animato e dopo ha voluto assolutamente che gli comprassimo dei tatuaggi perché voleva cercare la sua anima gemella… o qualcosa del genere.»
Jul ridacchia intenerito. «Il tuo mostriciattolo mi manca un sacco!»
«Anche tu gli manchi» risponde Marcelo, guardandolo per un attimo negli occhi.
«Allora faremo in modo di incontrarci presto. Comunque, che ne dici di farcelo qui? La parte interna del polso mi sembra abbastanza evocativa come zona per le anime gemelle» scherza Jul.
Il salvadoregno ci riflette per un attimo. «Forse sarebbe meglio un po’ più su, perché qui abbiamo le vene più in evidenza e l’immagine potrebbe uscire male.»
«Va bene, hai ragione. Com’è che funzionano questi cosi?» Jul afferra la cartellina e la gira, leggendo le istruzioni in spagnolo scritte sul retro. «Bisogna metterci l’acqua sopra, no?»
Marcelo si sporge a sua volta per leggere. «Sì, dobbiamo ritagliarli, togliere la pellicola e attaccarlo sulla pelle. Poi dovremmo inumidirlo finché la carta non diventa trasparente, in tutto ci dovrebbe volere meno di un minuto. E poi dobbiamo togliere la carta e lasciarlo asciugare!»
«Hai delle forbici?» gli domanda Jul.
«No. Le chiedo al barista, aspetta!» Marcelo si alza e corre al bancone del bar, mentre Jul sghignazza tra sé e continua a osservare i teschi messicani dipinti sulla carta.
«Ciao! Che fate?»
L’olandese solleva lo sguardo e si ritrova faccia a faccia con Rohan Bopanna; l’indiano si siede al loro tavolo senza troppe cerimonie e sposta gli occhi curiosi dal suo volto alla cartellina con i tatuaggi.
«Io e Chelo stiamo...»
«Ecco le forbici!» tuona Marcelo, appena tornato al tavolo. «Ah, ciao Ro! Vuoi farti un tatuaggio anche tu?» aggiunge poi, rivolgendosi al tennista indiano.
Bopanna scoppia a ridere. «Davvero volete farvi uno di quelli?»
Jul alza le mani in segno di resa. «Io non c’entro niente, è tutta colpa di Chelo Junior!»
Così i due raccontano tutto al nuovo arrivato, il quale annuisce sempre più interessato e affascinato.
«Se volete posso chiedere a mia moglie di farvene uno con l’henné, durerà più a lungo» propone gentilmente Bopanna.
Marcelo scuote il capo. «Macché, figurati, è solo una sciocchezza per fare felice il mio bimbo. Questo andrà benissimo! Piuttosto, puoi farci un altro favore?»
«Certo.»
«Ci fai da fotografo? Così mandiamo la prova che siamo anime gemelle a mio figlio!»
Jul ride. «Giusto, la foto! Più che altro io la voglio per ricordarmi tutte le idiozie che questo qui mi ha costretto a fare!»
«Vuoi bene a mio figlio, lo fai volentieri, ammettilo» replica Marcelo tra le risate.
«E purtroppo voglio bene anche a te» sospira Jul.
Bopanna li osserva divertito, godendosi i loro battibecchi con una strana espressione dipinta in volto.
«Che c’è?» domanda Jul all’indiano.
«Mi sa che siete anime gemelle per davvero, voi due.»
«Non mi sorprenderebbe se fosse così, visto che non mi sono ancora stancato di lui anche se mi ha tradito con il croato!» scherza Jul, dando di gomito a Marcelo.
«Oh, lo facciamo o no questo tatuaggio? Tra venti minuti devo andare ad allenarmi!» taglia corto il salvadoregno, sfilando la cartella con i tatuaggi dalla bustina trasparente e impugnando le forbici. «Non è che io sia bravissimo a ritagliare...»
Bopanna sospira. «Dai qua, ci penso io.»
Alcuni minuti più tardi, Marcelo e Jul si ritrovano ad ammirare i loro avambracci, sui quali ora campeggiano due teschi messicani variopinti con tanto di cappello e fiori tutt’intorno; le dimensioni sono ridicolmente grandi ed è impossibile non notarli.
I due ridono come matti, seguiti a ruota da Bopanna che non smette di scattare fotografie.
«Spero che sbiadiscano presto, sembriamo due coglioni!» esclama l’olandese, piegato in due sul tavolino.
«Ci toccherà allenarci e giocare con la felpa» concorda Marcelo.
«Oppure con la maglia a maniche lunghe» propone Bopanna. «Dai, mettetevi in posa, dobbiamo fare o no una foto seria per il piccolo Chelo?»
«Ma ci hai già fatto il servizio fotografico completo! Vai da quelli dell’ATP e fatti pagare.» Jul accosta l’avambraccio a quello del suo ex compagno di doppio e guarda meglio i teschi che sembrano intenti a scambiarsi un’occhiata complice, voltati l’uno verso l’altro come se le immagini fossero l’una il riflesso dell’altra.
Poi alza il capo e incrocia gli occhi scuri di Marcelo, trovandoli familiari e rassicuranti come al solito.
«Bravi, fermi così: guardatevi come i vostri teschietti!» Bopanna sibila quelle indicazioni e fa in tempo a scattare giusto un paio di volte prima che i due scoppino nuovamente a ridere.
«Solo con te posso abbassarmi a fare certe stronzate, Marcelo Arévalo...» Jul si passa una mano tra i capelli.
«Guardate che bella questa!» Entusiasta, Bopanna volta nella loro direzione lo schermo del suo smartphone. «Sembrate davvero legati indissolubilmente da un filo invisibile...»
Jul e Chelo osservano la fotografia, notando l’intensità con cui si stanno guardando, in un modo di cui nessuno dei due si era mai accorto prima d’ora.
«Chelo, sul serio ti guardo così?» chiede Jul stranito.
«E io allora?» Marcelo sbatte le palpebre. «Comunque abbiamo trovato il fotografo migliore del mondo, capace di immortalare la nostra amicizia in un singolo scatto!»
«Modestamente sono un artista» finge di pavoneggiarsi Bopanna, per poi inviare la fotografia a entrambi. «No, a parte gli scherzi, si vede che siete davvero uniti, io l’ho sempre notato.»
Marcelo ride e circonda le spalle di Jul con un braccio. «Adoro quest’uomo, non posso negarlo» ammette con estrema sincerità.
Jul ricambia il gesto e sorride con il cuore colmo di calore. «Per lui farei fare anche un tatuaggio vero, quindi deve pur significare qualcosa!»
«Verresti anche a visitare una Butterfly House per me?» lo provoca Marcelo, tirandogli una ciocca di capelli.
«Adesso non esageriamo.» Jul rabbrividisce al solo pensiero. «Però una farfalla me la farei tatuare, questo te lo concedo. Lo farei solo per te, quindi ritieniti onorato!»
«Vamos!» conclude Marcelo, stringendo un pugno in segno di vittoria.
«Ma tu non dovevi andare ad allenarti?» interviene Bopanna.
Il salvadoregno cade dalle nuvole, osserva freneticamente il cellulare per controllare l’orario e subito dopo balza in piedi. «Vado, altrimenti Yari e Carlos mi ripudiano!»
«Salutali da parte mia, e digli che quando si stancheranno di te io sono sempre pronto ad accoglierli!»
«Sì, Rojer, continua a sognare… ciao!» Marcelo scappa via, lasciando gli altri due da soli.
Bopanna scambia un’occhiata con Jul e gli sorride. «Non crescerà mai, ha sempre l’entusiasmo di un ragazzino» commenta con gli occhi che brillano.
Jul lancia un’ultima occhiata al tatuaggio, poi abbassa la manica della felpa e annuisce. «Meglio così, altrimenti chi ci farebbe divertire?»
«Ricordami perché avete smesso di giocare insieme» vuole sapere l’indiano.
«Non me lo ricordo neanche più!» Jul ridacchia. «Magari faccio come ha fatto Wesley con Nikola: quando deciderò di ritirarmi, gli chiederò se vuole giocare un’ultima stagione con me.»
Bopanna gli dà il cinque. «Buona idea!»
I due scambiano qualche altra battuta, poi anche l’indiano annuncia di dover raggiungere la sua famiglia per andare con loro a fare un giro in città.
Una volta rimasto solo, Jul sbircia nuovamente il tatuaggio, poi recupera la fotografia di lui e Chelo e la scruta meglio.
Si scambiano un’occhiata intensa, carica di affetto, stima e rispetto, mentre tengono gli avambracci vicini e mostrano il momentaneo simbolo del loro legame.
Jul non sa molto di anime gemelle, ma probabilmente Marcelo Arévalo è colui che per lui si avvicina maggiormente a quella definizione.
Quasi quasi glielo propone davvero quel tatuaggio con la farfalla…
Notes:
[7 dicembre – Prompt b) Tatuaggio.]
Il titolo della storia significa “anime gemelle” in olandese.
Volevo assolutamente dedicare una storia a una delle mie (ormai ex) coppie di doppisti: Rojer e Arévalo. Amavo tantissimo la loro collaborazione, ma sono comunque felicissima che siano ancora in ottimi rapporti e che si vogliano bene nonostante non giochino più insieme!
E ovviamente una menzione speciale al leggendario Rohan Bopanna non poteva assolutamente mancare *-*
Chapter 8: L'enquête
Summary:
FAA has a great idea thanks to his friend Hubi!
Hubert Hurkacz/Iga Swiatek (mentioned)
Notes:
(See the end of the chapter for notes.)
Chapter Text
Félix scruta Hubi incuriosito. «Allora? Dimmi cosa ti piace di lei!» lo incoraggia.
«Tutto» replica il polacco con semplicità. «La sua timidezza, la sua determinazione, il suo senso dell’umorismo… come mi guarda...»
«Sei proprio innamorato!» commenta il canadese intenerito.
Hubi avvampa. «Come si fa a non amare Iga?»
Félix ride.
«Ah, e poi adoro i suoi capelli, anche se quando gioca e si allena li nasconde con il cappellino» racconta ancora Hubi, sospirando poi dopo aver pronunciato le ultime parole.
«Questo è un problema?»
«No, cioè… quando siamo insieme non lo usa, intendo, quando non è in campo.»
Félix annuisce. «Allora direi che è perfetto.»
Hubi gli lancia un’occhiata interrogativa.
«Questo significa che quando è in campo usa una maschera, si nasconde sotto quel cappello dalla visiera enorme per non mostrarsi completamente, ma con te può essere se stessa e…»
Hubi intanto sbatte le palpebre, cercando di capire se il discorso del suo amico abbia effettivamente senso.
Poi Félix all’improvviso schiocca le dita. «Ma tu sei un genio!» sbotta.
Hubi sobbalza. «Eh? Che ho fatto? Ero zitto...»
«Questa faccenda del cappello può rivelarsi interessante. E se i giocatori avessero davvero dei motivi psicologici per usarlo o non usarlo quando sono in campo?»
«Stai delirando, FAA» ride il polacco.
Ma l’altro ormai è partito con le sue considerazioni e pare non ascoltarlo neanche più. «Se io avviassi un’inchiesta su questo argomento e andassi a intervistare i nostri colleghi, potrei scoprire cosa si nasconde dietro il loro outfit!»
«Ehm… non ho capito.»
«Non ti preoccupare, lo capirai quando intervisterò la tua fidanzata!» esclama tronfio Félix, sfregandosi le mani con fare soddisfatto.
«Ehi, non è la mia fidanzata! Cioè, non credo, usciamo insieme da poco!» puntualizza Hubi.
Félix lo zittisce con un cenno e si schiarisce la gola. «Devo concentrarmi per creare le domande giuste!»
Hubi sospira, scuotendo il capo in preda all’esasperazione. «Ormai l’abbiamo perso...»
«Tranquilla, si tratta solo di poche domande, non ti ruberò molto tempo!»
Iga guarda Félix dal basso, il borsone in spalla e la necessità di fare una doccia sempre più impellente.
Il tennista canadese nota che indossa ancora il suo monumentale cappello, così prende qualche appunto sul cellulare. «Bene, allora… il cappellino è un elemento che sembra dire molto della tua personalità.»
Iga inclina il capo di lato e fa una smorfia. «Di cosa stiamo parlando?»
«Non preoccuparti, è solo un piccolo sondaggio sulle abitudini dei tennisti. La prima domanda è: perché usi sempre il cappello quando sei in campo?» prosegue Félix imperterrito.
Iga sbatte le palpebre e stringe più forte la tirella del borsone. «Perché mi dà fastidio la luce. È logico.»
«Sicura? Ti ho visto indossarlo anche in condizioni di luce per niente fastidiosa» insiste Félix, senza però essere brusco. «Potrebbe rappresentare un modo per sentirti maggiormente a tuo agio?»
La polacca sospira appena, riflettendo sulla risposta da dare. «Sì, effettivamente senza cappellino mi sentirei un po’… esposta, non saprei come spiegarlo.»
«Allora potremmo dire che è uno scudo, una sorta di protezione...» suggerisce il canadese, continuando a prendere appunti.
«Beh, potrebbe essere, ma perché...»
Félix la interrompe: «E per te cosa significherebbe giocare senza cappellino?»
Iga si mordicchia il labbro inferiore. «Sarebbe come giocare senza t-shirt.»
«Ti sentiresti a disagio» conclude il ragazzo annuendo.
«Moltissimo, devo essere sincera.»
«Ultima domanda, poi ti lascio in pace: accetteresti mai di scendere in campo senza cappello?»
Iga scuote vigorosamente il capo. «No, mai. Può sembrare stupido, ma...»
«Quello che ci fa stare bene non è mai stupido» filosofeggia Félix, sorridendole con fare comprensivo. «Grazie per avermi dedicato il tuo tempo, hai contribuito allo sviluppo di un importante studio sociologico!»
«In che senso? Oddio, cosa devi fare con le mie risposte?» si preoccupa Iga, rivolgendogli un’occhiata pungente.
«Niente, è solo un sondaggio. Sono una persona curiosa.» Félix le dà una breve pacca sulla spalla e si allontana, salutandola rapidamente.
Iga sbatte ripetutamente le palpebre e si domanda se abbia appena dato la genesi a un mostro.
Félix entra nello spogliatoio, poi si guarda intorno e i suoi occhi si illuminano quando individua il soggetto perfetto per le sue domande: Taylor Fritz.
«Ehi, Fritzy! Come va? Posso farti un paio di domande?» gli si rivolge, avvicinandosi con poche falcate a lui.
Il tennista californiano distoglie lo sguardo dal cellulare e lo fissa confuso. «Ciao. Che domande?» chiede un po’ scettico.
Félix gli si siede accanto sulla panchina e sblocca lo smartphone, aprendo l’app per prendere appunti. «Sto facendo un piccolo sondaggio, niente di che.»
Taylor si passa una mano tra i capelli per sistemarli, poi controlla l’orologio da polso e annuisce. «Se fai in fretta okay, tra dieci minuti devo essere in palestra.»
«Tranquillo! Allora, ci sono tanti tennisti che non possono fare a meno del cappellino quando scendono in campo. Tu invece usi la fascetta e non giochi mai senza. Come mai?»
Il californiano fissa le proprie unghie mangiucchiate, poi osserva il suo collega. «Che roba è, Félix?»
«Rispondi e basta!»
Taylor sospira. «Perché la fascetta mi tiene in ordine i capelli ed evita che il sudore mi finisca sugli occhi. Contento?»
Félix ridacchia. «No. Sicuro che il motivo sia soltanto questo? Potresti usare il cappellino. Non ti dà fastidio il sole in pieno viso?»
Taylor aggrotta la fronte. «E a te? Nemmeno tu usi il cappellino, e nemmeno la fascetta se è per questo!»
«Non stiamo parlando di me! Vuoi collaborare sì o no? Stiamo perdendo tempo!» lo incita il canadese.
«Il cappello mi dà fastidio, non vedo bene il campo nel suo insieme» replica Taylor esasperato. «Altro?»
«Però ci sono dei tuoi colleghi, come Karen Khachanov e Matteo Berrettini, che usano il cappello con la visiera all’indietro. Nemmeno questo ti piace?» insiste Félix, trattenendo un’altra risata nel notare l’espressione seccata dell’altro.
«No, perché, beh… i cappellini mi schiacciano troppo i capelli, non li sopporto» ammette infine Taylor.
«Ah! Volevo sentire proprio la verità! Quindi non accetteresti mai di giocare senza fascetta o con qualcos’altro?»
Il californiano si mordicchia l’unghia del pollice destro. «Ci ho provato, ma non mi trovo a mio agio.»
«Certo, hai un fascino da preservare...» lo prende in giro Félix.
Taylor a quel punto alza gli occhi al cielo, poi si mette in piedi e raccoglie le proprie cose. «L’intervista finisce qui, se hai altre domande ti aspetto in conferenza stampa» grugnisce, lasciandosi però sfuggire un sorriso.
«Affare fatto!» Félix si allunga per stringergli la mano e sorridergli più apertamente.
Mentre Taylor lascia lo spogliatoio, finisce di appuntare alcune cose e comincia a riflettere sul prossimo giocatore da intervistare.
Félix aspetta che Karen finisca di allenarsi, poi lo affianca mentre lascia il campo.
«Félix, ehi! Come stai?» esordisce il tennista russo, dandogli una pacca sulla spalla.
«Bene, e tu? In realtà ti aspettavo perché avrei bisogno di farti alcune domande. Per un sondaggio che ho creato, niente di impegnativo!» spiega il canadese.
«Sembra figo! Spara» lo incoraggia Karen, mentre entrambi continuano a camminare verso la palestra.
Ogni tanto salutano qualcuno, poi quando sono quasi arrivati Félix si ferma. «Sto indagando sulle motivazioni che spingono certi tennisti a usare il cappellino quando scendono in campo.»
Karen si arresta di botto al suo fianco e scoppia a ridere. «Non dire stronzate, non ci credo!»
«Giuro! È stato Hubi a ispirarmi quest’idea geniale!» conferma il canadese compiaciuto.
«Ah sì? Pensavo che Hubi fosse più serio di così» scherza Karen. «Cosa vuoi sapere?»
«Beh, intanto… come mai lo indossi?»
«Non lo so. Cioè, lo faccio da anni, giocare col cappello mi viene naturale. Non credo che ci siano sempre delle spiegazioni psicologiche dietro, se è questo che stai cercando di scoprire. O meglio, non per me. So che certe persone lo fanno per motivi legati a insicurezze, probabilmente, però...» sproloquia Karen.
Félix solleva una mano per fermarlo. «Quindi non sai perché lo fai?»
«No, cioè, lo faccio perché sì. Mi tiene in ordine i capelli, ma se lo mettessi con la visiera sul davanti mi ostruirebbe il campo visivo. Non riuscirei neanche a fare gli smash, sai quanti ne perderei? Poi sbagliare gli smash è la cosa più brutta in assoluto, mi incazzo troppo quando li butto in rete!»
Il canadese ridacchia e scuote il capo. «Stai divagando.»
«Ah, scusa… dicevamo?»
«Chi credi che usi il cappello come una maschera?» Félix si sta divertendo un sacco, anche se probabilmente non riuscirà a scoprire niente di utile al suo sondaggio parlando con Karen.
«Non te lo so dire, però sicuramente qualcuno ne fa una questione di stile, tipo Andrey non lo userebbe mai, altrimenti sai che disastro con quei capelli che si ritrova?»
Félix annuisce. «In quel caso allora è una questione di capelli, non di cappellini...»
«Bravo! Comunque devo andare, bro, se vuoi ci vediamo dopo e continuiamo a parlarne. Questo studio sociologico mi sembra molto interessante!»
Il canadese gli batte amichevolmente sulla schiena. «Va bene, scrivimi dopo.»
«Posso anche vedere i risultati in anteprima?» lo supplica Karen con un sorriso sornione.
«Vedremo...»
I due si salutano e Félix afferra il cellulare per scrivere giusto qualcosa sulla conversazione appena avuta, ritrovandosi a sghignazzare tra sé e sé mentre pregusta la prossima intervista.
Dopo aver girato per tutto l’impianto sportivo, finalmente Félix individua Ons Jabeur seduta a un tavolino del bar principale.
Sta digitando freneticamente sulla tastiera del portatile e sembra concentratissima, quasi gli dispiace disturbarla, ma non può perdere l’occasione di porle qualche domanda.
La raggiunge e le sfiora appena una spalla. «Ciao Ons, scusa se ti disturbo» esordisce.
La tunisina alza lo sguardo e gli sorride cordiale. «Ciao Félix! Macché, non preoccuparti.» Abbassa lo schermo del computer e gli indica la sedia di fronte a lei. «Fermati un po’, facciamo due chiacchiere. Non ci vediamo da un po’, come stai?»
Félix si accomoda al suo stesso tavolo, rendendosi conto che avrebbe dovuto aspettarsi una simile cordialità da parte di Ons.
Il canadese intreccia le mani sul ripiano in vetro e sorride. «Sto bene, grazie. In realtà sono qui per farti qualche domanda.»
La tunisina appoggia il mento sui palmi delle mani e lo scruta curiosa. «A me? Di che si tratta?»
«Sinceramente sto rompendo le palle un po’ a tutti, ma è per un sondaggio che ho creato.»
«Interessante! Un sondaggio su cosa?»
Félix le spiega a grandi linee la sua idea, e Ons subito si mostra disponibile a partecipare con il massimo entusiasmo.
«Tu giochi sempre con la fascetta. C’è un motivo in particolare?» le domanda allora il canadese.
Ons ci pensa su un attimo, poi annuisce. «È comoda per tenere in ordine i capelli. Ho provato a usare il cappellino ma mi fa sudare un sacco!»
«Alcune delle tue colleghe usano la visiera, cosa ne pensi?»
«Credo che la visiera sia un accessorio molto femminile. Insomma, perché le ragazze usano la visiera e quasi mai il cappello?» riflette Ons.
Félix ammira tantissimo la sua intelligenza e non si è pentito per niente di averla inclusa nel sondaggio. «Continua» la incoraggia.
«I ragazzi invece non usano mai la visiera. Ti sei mai chiesto perché?» prosegue lei.
«Effettivamente… poi c’è la fascetta.»
«La fascetta è usata maggiormente dagli uomini, noi donne siamo in netta minoranza.»
Félix annuisce. «Credi che ci siano motivazioni legate al genere in questa scelta?»
«Sì, spesso sì. È un po’ come la differenza tra i kit maschili e quelli femminili: noi del WTA dovremmo convenzionalmente indossare la gonna, voi dell’ATP i pantaloni.»
«Ma ovviamente ci sono le eccezioni, come nel tuo caso» commenta Félix.
«Però un ragazzo non potrebbe mai indossare una gonnellina. Perché? Ti sembra giusto?» lo interroga Ons con lo sguardo colmo di passione.
«Sono d’accordo con te, ma il mio sondaggio è molto più blando. Se deciderò di andare più a fondo su questi argomenti, ti coinvolgerò senz’altro!» le promette lui con un sorriso riconoscente.
«Grazie, sarebbe interessantissimo. Però anche la mia risposta al tuo sondaggio ha a che fare con questo argomento: secondo me molte persone usano o non usano certi accessori per salvare le apparenze. È psicologico, non è una colpa, ma è la nostra società che ci impone questi preconcetti» gli spiega lei, gesticolando per enfatizzare le sue parole.
«Non fa una piega. Tu quindi pensi che le persone dovrebbero scendere in campo indossando ciò che vogliono, senza lasciarsi influenzare da quello che ci si aspetta da loro?» cerca di riassumere Félix.
«Certo. Io uso la fascetta per comodità, così come faccio con gli shorts e le t-shirt. Sto bene così!» conclude Ons con semplicità.
«Magari fossero tutti come te! Grazie, il tuo contributo è stato preziosissimo» replica lui ammirato, regalandole un sorriso luminoso.
«Figurati! Adesso però dimmi come stai!» esclama Ons.
Félix annuisce. «Va bene, aspetta che scrivo qualche appunto e poi ti racconto qualcosa.»
«Allora nel frattempo vado a prendere qualcosa da bere. Hai fame?»
Félix ride quando lei scatta in piedi, pronta ad avviarsi al bar per ordinare per entrambi.
È decisamente contento di averla coinvolta nel suo sondaggio.
«Quindi… a che conclusione sei giunto?»
Félix lancia un’occhiata a Hubi, il quale gli ha appena posto quella domanda mentre si riscaldano per fare un set di allenamento l’uno contro l’altro.
Non appena si sono incontrati, il canadese gli ha detto di avere delle novità sul sondaggio, ma una conversazione con i loro coach li ha interrotti mentre ne parlavano.
«Diciamo che non ho finito, ho ancora delle interviste da fare, ma per ora è venuto fuori qualcosa di interessante: è tutta questione di apparenza» spiega Félix, respingendo la palla di Hubi con una volée di dritto.
«In che senso?» domanda il polacco.
«C’è chi lo fa per motivi estetici, chi per convenzioni sociali, chi per nascondere le proprie insicurezze… ma come si può riassumere tutto questo? C’è una base su cui si fondano questi comportamenti, ovvero la necessità di apparire.»
Hubi si ferma per un attimo, perdendosi così un’altra volée dell’amico. «Non pensi che sia un po’ azzardata come ipotesi?»
«Forse. Però, come ti dicevo, non ho ancora finito. E poi dovrò studiare bene tutti i dati raccolti, provare a fare delle statistiche, dei calcoli…» Félix rimette in gioco la palla, continuando a elencare con perizia.
Hubi scoppia a ridere. «Ma chi cazzo te lo fa fare?»
«Io voglio farlo, sono curioso.»
«Ti piace studiare i casi umani, eh?» lo punzecchia l’amico.
«No, altrimenti avrei intervistato anche te» gli risponde Félix per le rime, colpendo con forza un dritto che spiazza completamente il suo avversario.
«Grazie, che carino! E, dimmi… lei cos’ha detto?» indaga Hubi.
«La tua fidanzata? Ha ammesso che usa il cappello perché senza si sentirebbe esposta, ha detto che per lei giocare senza sarebbe come scendere in campo senza maglietta!» racconta Félix ridacchiando.
«Che tenera...» Hubi sorride dolcemente al pensiero di Iga.
«Basta, basta! Non pensare a lei, altrimenti sarà troppo semplice batterti!» lo rimbecca il canadese.
I due scoppiano a ridere, per poi concentrarsi finalmente sull’allenamento.
Félix, tuttavia, non vede l’ora di proseguire con i suoi sondaggi.
E mentre colpisce una palla dopo l’altra, sta già pensando a chi rivolgere le prossime domande.
Notes:
[8 dicembre – Prompt b) Cappello.]
Il titolo della storia significa “il sondaggio” in francese.
Mi sono divertita TANTISSIMO a scrivere questa storia, immaginare Félix che scorrazza per le varie sedi dei tornei per intervistare i suoi colleghi è stato troppo bello!
E inoltre anch’io mi sono sempre chiesta se ci siano delle motivazioni specifiche per il modo in cui i tennisti si vestono quando scendono in campo, così ho provato a immaginarne qualcuna e a farla scoprire al nostro temerario canadese! :D
Se qualcuno di voi avesse delle idee/opinioni a riguardo, è pregato di commentare per farmelo sapere, sono sempre curiosa e aperta a nuovi spunti di riflessione! ^^
Chapter 9: In awe
Summary:
Jack Draper & Jenson Brooksby
Notes:
(See the end of the chapter for notes.)
Chapter Text
Jack sente le note risuonare nell’aria e subito si concentra sulla musica. Qualcuno sta suonando un pianoforte, ma si potrebbe anche trattare di una traccia registrata, tanta è la perfezione dell’esecuzione.
Non conosce il brano, probabilmente è musica classica e lui è negato per quel genere, però in qualche modo rimane colpito.
D’improvviso sente l’impellente necessità di scoprire se qualcuno sta suonando, così anziché proseguire verso gli ascensori per raggiungere la sua stanza, entra nel lussuoso bar dell’albergo e si guarda intorno.
L’atmosfera è intima, le luci soffuse rendono l’ambiente un po’ cupo e la musica suonata al pianoforte non fa che rendere ancora più malinconico l’ambiente.
Eppure c’è qualcosa che tiene Jack lì, fermo, attento, in ascolto.
Qualcuno è davvero seduto sullo sgabello, un’ombra tra le ombre, un profilo appena accennato nella semioscurità.
Jack si lascia attirare dalla delicatezza delle note, dalla melodia quasi struggente, dal trasporto con cui il pianista esegue quel brano sconosciuto e magnetico allo stesso tempo.
Compie alcuni passi, poi si arresta di botto quando riconosce il ragazzo che siede dietro il pianoforte: Jenson Brooksby.
Jack perde un battito, improvvisamente si sente di troppo e non vorrebbe assolutamente disturbarlo, ma allo stesso tempo non riesce a tornare indietro.
È incantato dalla sua bravura, dal suo modo di far sembrare semplici dei passaggi complicatissimi, dalla dedizione che dedica a qualsiasi cosa faccia; Jenson è concentratissimo, sembra su un altro pianeta e pare non essersi neanche accorto della sua presenza.
Jack ha come l’impressione di essere un intruso, ma si vede anche come un eletto – ha avuto la preziosa opportunità di entrare nel mondo di Jenson senza far rumore ma senza essere cacciato via.
Nota con sorpresa che il ragazzo non sta leggendo alcuno spartito, il che agli occhi di Jack lo rende un extraterrestre; lo osserva ammirato, lo ascolta rapito, se ne sta immobile a godersi quell’attimo, sperando che non finisca troppo in fretta.
Quando Jenson conclude l’esecuzione del brano, si volta nella sua direzione e lo osserva – non sembra seccato o infastidito, semplicemente tranquillo, calmo, rilassato.
Si comporta come se non avesse appena suonato una musica impossibile.
«Scusa» borbotta Jack leggermente imbarazzato.
«Perché ti scusi?» domanda Jenson, l’espressione mortalmente seria.
«Ti ho disturbato...»
Il tennista statunitense scuote appena il capo. «Avere un pubblico è utile. Mi esalta.»
«Sei bravissimo, non sapevo che suonassi il piano così...» Jack si interrompe, frugando nella propria mente alla ricerca della parola giusta da utilizzare. «Insomma, che fossi perfetto.»
Jenson continua a fissarlo. «Nessuno è perfetto, ma mi piace dare il meglio di me.»
Jack sorride imbarazzato, disarmato dalle risposte candide e genuine di quel ragazzo che è così diverso dal resto dei loro colleghi, ma allo stesso così simile a tutti loro. Si sente stupido in confronto a lui, anche se l’intento di Jenson non è certo quello di essere presuntuoso.
«Tu sai suonare qualche strumento?» domanda lo statunitense.
«No. Ho provato con la chitarra, ma non fa per me. Non ho senso del ritmo, credo» ammette Jack con una risata ironica.
«La chitarra è troppo complicata, il pianoforte è molto più semplice» commenta Jenson, sistemandosi una ciocca di capelli ramati che gli era ricaduta sulla fronte.
«A me sembra impossibile. Voglio dire, quello che hai suonato è una follia, ma come fai?» Jack indica lo strumento di fronte a loro e si stringe nelle spalle.
«Non lo so. È una questione di abitudine, di memoria, di meccanica.»
«Però non hai suonato soltanto con le dita, era tutto così emozionante…» cerca di spiegare Jack. «Come quando giochi a tennis. Io mi diverto un sacco a guardarti, fai delle cose pazzesche con la racchetta in mano.»
«Grazie, ci metto tutto me stesso. Ho sentito dire che qualcuno mi considera sgraziato, pensa che il mio tennis sia sporco e per niente elegante.» Jenson fa spallucce. «L’importante è che sia efficace.»
«Lo è, credimi» conferma Jack, sorridendogli con calore. «Ti ammiro un sacco, JT» aggiunge poi, pentendosi subito dopo delle parole che ha pronunciato. Non vorrebbe mai dargli l’impressione di trattarlo diversamente da come fa con tutti gli altri, non era certo questo il suo intento.
«Perché?» chiede Jenson curioso.
«Perché sei forte. Mentalmente sei incredibilmente forte, coraggioso, temerario. Voglio dire, non fraintendermi, ma io non ho neanche la metà delle tue capacità di adattamento, della tua dedizione, del tuo spirito combattivo.»
Jenson si alza dal seggiolino di fronte al pianoforte e Jack teme che stia per piantarlo in asso per via delle stronzate che gli sta dicendo.
Tuttavia lui lo osserva con interesse e gli regala un sorriso. «Sei gentile, Jack. Non esistono tante persone come te. Ne ho conosciute di terribili nel corso degli anni.»
«Sono solo sincero.»
«Vedi, il punto è che noi autistici possiamo davvero sembrare degli esseri bizzarri e incomprensibili. Però siamo tutti diversi, e ognuno di noi ha le sue potenzialità. A volte sono più accentuate, ma tutto dipende da chi ci sta attorno. Io sono stato molto fortunato» prosegue Jenson con calma, distogliendo lo sguardo dal suo interlocutore e posandolo sui tasti del pianoforte.
«Sei speciale. Ma non perché sei autistico, JT. Perché sei tu» mormora Jack con un’onestà devastante, rendendosi conto che con quel ragazzo è inutile nascondersi, provare a mentire, farsi vedere per ciò che non è.
Inutile e insensato.
«Adesso non esagerare. Tendo a crogiolarmi nei complimenti, meglio non farmene troppi» rivela Jenson ampliando il sorriso. Poi torna a guardarlo in faccia e aggiunge: «Vuoi provare a suonare il piano?»
Jack scuote il capo. «No, grazie, sarebbe un disastro! Però se vuoi possiamo fare un set di allenamento uno di questi giorni, voglio stracciarti!»
Jenson gli rivolge un’occhiata scettica. «Non ci riuscirai.»
Jack gli tende la mano. «Scommettiamo?»
Lo statunitense fissa le sue dita per qualche istante, poi gliele stringe con forza. «Mai scommettere con me, sono testardo.»
«Anch’io, amico mio.»
«Allora che vinca il migliore» sentenzia Jenson.
«Intanto ti va di bere qualcosa?» gli propone Jack, indicando il bancone del bar dall’altra parte della grande sala.
Jenson sospira e si siede nuovamente dietro il pianoforte. «Ti raggiungo tra poco, prima devo finire la scaletta che avevo previsto.»
Jack ridacchia e si allontana, rendendosi conto ancora una volta che quel ragazzo non smetterà mai di stupirlo, incantarlo, rapirlo.
Notes:
[9 dicembre – Prompt b) Pianoforte.]
Per scrivere questa storia mi sono ispirata alla realtà, dato che è vero che Jenson suona il pianoforte e, ovviamente, anche il suo autismo è reale, anche se prima che lui stesso ne parlasse non l’avrei mai detto!
E ovviamente non è un mistero neanche che Jack lo adori *-*
Chapter Text
No sleep
No sleep until I'm done with finding the answer
Won't stop
Won't stop before I find the cure for this cancer
Sometimes
I feel like going down and so disconnected
Somehow
I know that I am haunted to be wanted
Emil prende posto dietro la batteria e fissa le pelli leggermente usurate dei tamburi.
È trascorso troppo tempo dall’ultima volta che ha suonato.
Sfila le cuffie che aveva sistemato attorno al collo e se le infila in testa, posizionandole per bene sulle orecchie.
Si chiede se si ricordi come si fa, se le sensazioni saranno sempre positive e meravigliose come un tempo, se è ancora in grado di picchiare su pelli e piatti lasciandosi trasportare soltanto dal ritmo.
Afferra il cellulare e apre Spotify, scorrendo l’infinita lista dei suoi brani preferiti; dovrebbe provare con qualcosa di semplice, non troppo elaborato ma efficace, potente, capace di farlo sfogare.
Il suo sguardo si posa su una canzone che, nonostante sia ormai datata, gli procura sempre un mix di emozioni indescrivibili. Ha un testo pazzesco, d’impatto, e un incedere hard rock che contrasta con la dolcezza struggente del cantato.
Emil sorride appena, rendendosi conto che ha permesso al tennis di portargli via tutto: la serenità, la semplicità di una canzone, la pace di un risveglio senza avvertire il peso delle aspettative.
Forse però non dovrebbe dare la colpa allo sport che ama, ma soltanto a se stesso – lui ha permesso alla racchetta di deturpargli la positività, di renderlo insicuro, di spezzarlo e riempirlo di insicurezze.
Adesso però Emil vuole ricominciare, e vuole farlo nel modo giusto. Desidera procedere con calma, ripartire da zero, darsi il tempo di assaporare ogni attimo, permettersi di innamorarsi ancora una volta del tennis.
E suonare la batteria fa parte del processo, in qualche modo, anche se in apparenza le due cose non sono collegate. È una passione che ha sempre avuto, ma il modo in cui il tennis l’ha risucchiato gli ha impedito di coltivarla.
Emil non vuole più che accada.
Ha trascorso troppo tempo nell’ombra, ad aspettare il suo momento, a guardare e invidiare il successo altrui.
Adesso invece vuole brillare. A modo suo, certo, ma vuole farlo.
Fa partire la riproduzione del brano e poco dopo l’intro gli esplode nelle orecchie; infila velocemente il cellulare in tasca e afferra le bacchette, giusto in tempo per attaccare insieme al batterista.
Incredibilmente le mani e i piedi si muovono senza troppi sforzi, percorrendo sentieri che conoscono perfettamente e nei quali non potrebbero mai perdersi – Emil realizza che ha suonato quel brano fino a consumarlo, come avrebbe potuto dimenticarsi come eseguirlo?
La voce di Lauri Ylönen è una dolorosa carezza nelle sue orecchie, si sposa perfettamente con il ritmo incalzante di Aki Hakala.
I The Rasmus gli sono sempre piaciuti, non soltanto perché sono suoi connazionali, ma perché hanno sempre saputo arrivare dritti al suo cuore con i testi, le melodie e i ritmi.
Emil continua a suonare e sa che probabilmente sta sbagliando dei passaggi, sta saltando alcune parti e semplificandone altre – avrebbe bisogno di esercitarsi di più per fare una performance decente, ne è consapevole; però ha deciso che con la batteria, così come con il tennis, se la prenderà con calma e permetterà a se stesso di godersi ogni istante.
Comincia a sentire il suo corpo ribollire di eccitazione, i muscoli dolore un po’, la pelle vibrare e imperlarsi di sudore. In fondo suonare quello strumento non è poi tanto diverso da giocare a tennis.
L’adrenalina gli scorre nelle vene mentre segue il ritmo di Aki, facendolo sentire dannatamente euforico e gioioso, come non si sentiva da tantissimo tempo.
Come ha potuto lasciare che la vita gli scorresse addosso senza accoglierla? Come si è permesso di essere tanto apatico e ingrato nei confronti di emozioni così intense e meravigliose?
È rimasto nell’ombra per troppo tempo, ma adesso basta. Adesso il suo tempo è arrivato e lui vuole viverselo tutto, fino all’ultimo millesimo di secondo.
I've been watching, I've been waiting
In the shadows for my time
I've been searching, I've been living
For tomorrows all my life
Notes:
[10 dicembre – Prompt b) Ombre.]
Il titolo della storia è la traduzione di “in the shadows” in finlandese, che è anche il titolo della canzone del gruppo The Rasmus citata da Emil. Alcune parti del testo del brano sono riportate a destra.
A ispirarmi per questa piccola storia è stata la pausa che Emil si è preso di recente dal tennis e il fatto che gli piaccia davvero suonare la batteria – l’aveva detto in un video l’anno scorso, uno di quelli della Coppa Davis dove venivano rivelate delle curiosità sui vari componenti delle squadre in gara ^^
Non so se gli piacciano i The Rasmus (spero di sì), ma visto che piacciono a me, glieli ho affibbiati :D
Chapter 11: Moy svet
Summary:
Andrey Rublev/Grigor Dimitrov
Notes:
(See the end of the chapter for notes.)
Chapter Text
Descrivi Grigor, specificando ciò che significa per te.
Grigor è una delle persone più buone che io conosca. Siamo colleghi da diversi anni, ma è riuscito fin da subito a fare breccia nel mio cuore e a diventare mio amico. Non è stato difficile, visto il suo carattere espansivo e il suo senso dell’umorismo piuttosto simile al mio.
È bellissimo, un uomo stupendo, una persona genuina e solare, che sa sempre come tirarmi fuori dai miei momenti di crisi.
A volte è un po’ apprensivo e invadente, penso si comporti così perché tiene a me e non vuole vedermi soffrire, anche se è inevitabile che succeda, visto come sono fatto.
Sa come prendermi, sa come calmarmi con il suo sguardo gentile e come rassicurarmi con una carezza delicata.
La generosità è uno dei suoi più grandi difetti, perché spesso dà tutto se stesso agli altri, permettendo alle persone di approfittarsi di lui e della sua bontà.
È testardo, determinato e certe volte non vuole accettare l’aiuto di chi gli vuole bene. Grigor indossa una maschera di integrità, si mostra sempre come un uomo tutto d’un pezzo, ma con il tempo ho scovato tante fragilità in lui. Però si vergogna di mostrarsi debole, anche se quando siamo insieme non fa mistero dei suoi sentimenti e delle emozioni che prova.
In questo è più bravo di me. Con le parole ci sa fare, potrei ascoltarlo sproloquiare per ore senza stancarmi, sembra sempre consapevole di tutto quello che dice e dell’effetto che mi fa.
C’è una frase che mi fa pensare a lui, a ciò che rappresenta per me, tratta da un brano di Bruno Mars. Dice: “Se mai dovessi trovarti perso nel buio senza poter vedere, io sarò la luce che ti guiderà”.
Grigor è questo per me.
La mia luce nel buio.
La psicoterapeuta solleva lo sguardo dal foglio e sorride ad Andrey, annuendo un paio di volte. «Molto bene» commenta.
Andrey si sente avvampare ancora più di prima e china il capo, evitando di mantenere il contatto visivo con la donna seduta dietro la scrivania.
«Come ti fa sentire aver scritto queste cose su Grigor?» domanda lei, posando il foglio sul ripiano in legno lucido.
«In imbarazzo» replica Andrey senza riflettere.
«Perché?»
Si stringe nelle spalle. «Non lo so, non dico mai cose del genere alle persone.»
«Saresti disposto a consegnargli questo foglio?» chiede ancora la terapeuta.
Andrey solleva di scatto il capo, poi lo scuote con forza. «No, mai!»
«Di cosa hai paura?» prosegue lei con calma, cercando il suo sguardo.
Andrey rifugge i suoi occhi, muovendosi a disagio sulla sedia. «Di risultare ridicolo, esagerato, melodrammatico...» bofonchia.
«Qui hai scritto: si vergogna di mostrarsi debole, anche se quando siamo insieme non fa mistero dei suoi sentimenti e delle emozioni che prova. Quando sono gli altri – in questo caso Grigor – a mostrare le proprie debolezze, qual è la tua sensazione a riguardo? Li percepisci come ridicoli, allo stesso modo in cui hai definito te stesso?»
Andrey sorride imbarazzato. «Grigor non è mai ridicolo.»
La terapeuta si sporge appena sulla scrivania. «E perché tu credi di poterlo essere ai suoi occhi?»
«Non lo so.» Si stringe nelle spalle. «Io non dico mai queste cose.»
«Però le pensi, altrimenti non le avresti scritte. Giusto?»
«Sì, credo» mormora Andrey.
«Quale potrebbe essere la conseguenza peggiore se lui leggesse queste parole?» chiede ancora la dottoressa, appuntando qualcosa sul suo taccuino.
Andrey ci riflette su per qualche istante. «Non lo so, potrebbe essere spaventato da me. Potrebbe dirmi che sono troppo appiccicoso.»
«E questo come ti farebbe sentire?»
«Una merda. Mi sentirei perso. Non voglio dipendere così tanto da lui, non è giusto. E Grigor è troppo buono per mandarmi a farmi fottere» spiega.
«D'accordo, prova a riflettere sul suo comportamento, se ti ha mandato qualche segnale concreto che questo potrebbe davvero accadere. Cosa ti dice quando siete insieme? Fammi qualche esempio» lo incoraggia ancora lei.
«Mmh… mi fa complimenti che non mi merito. Dice che sono bello, speciale, meraviglioso… dice che mi ama.» Andrey pronuncia quelle ultime parole con il cuore in tumulto, fatica ancora a credere che sia vero.
«E questo ti spaventa?»
«Molto. Perché potrei deluderlo. Io deludo sempre tutti.»
La psicoterapeuta lo osserva per qualche secondo, poi gli domanda: «Questo è vero o è il modo in cui tu pensi a te stesso?»
Andrey si mette le mani sul viso per un attimo. «Non lo so. Grigor si arrabbia quando mi sente parlare così, dice che non potrei mai deluderlo.»
«Ma tu sei convinto del contrario.»
«Sì.»
«Andrey, se lui ti dice queste cose, pensi davvero che potrebbe spaventarsi per ciò che hai scritto su questo foglio? Sembra evidente che sa ciò che prova per te, che ha chiare le sue emozioni e che non ha timore di condividerle» cerca di farlo ragionare la dottoressa.
«Sì, però… io mi sento inadeguato. Non mi sento abbastanza per lui» ammette Andrey con un sospiro.
«Le tue insicurezze quindi riguardano te o lui?»
«Me. Però anche lui, perché se gli facessi leggere quello che ho scritto potrebbe...» Andrey si blocca, incapace di proseguire. Non trova più giustificazioni, non riesce più a esprimere scuse plausibili. Si limita a sorridere imbarazzato, fissando il pavimento sotto i suoi piedi.
«Cosa potrebbe succedere?» lo interroga ancora lei, scribacchiando qualcos’altro sul suo blocco per appunti.
«Ho paura di rimanere da solo. Che lui si allontani. Che mi abbandoni.» Andrey scuote la testa, passandosi una mano tra i capelli. «E non mi piace dipendere così tanto dalle persone. Grigor non se lo merita.»
«Cosa provi per lui?»
«Beh… ammirazione, rispetto… amore, credo.»
«Lo ami?»
Andrey annuisce senza esitare. «Sì.»
La psicoterapeuta sorride appena. «È chiaro. Lui ti ama, tu lo ami. Giusto?»
«Credo di sì, che sia giusto. Ma...»
Lei attende per un attimo per evitare di interromperlo, poi prosegue: «Allora perché non vuoi fargli leggere ciò che hai scritto?»
«Potrei anche farglielo leggere, insomma, ormai mi ha visto in condizioni pietose, mi ha sopportato in momenti bui, forse glielo devo. È che mi sento davvero ridicolo, insomma, non lo so. Sdolcinato?»
La dottoressa cerca pazientemente di incrociare il suo sguardo. «Quali parole ritieni sdolcinate?»
«Dirgli che è la mia luce, insomma… però è la verità. Quando penso a lui, mi si illumina tutto. Ho sempre un casino in testa, lo sai, ma in qualche modo Grigor mi calma.»
«Ha un effetto positivo nella tua vita» commenta lei.
«Sì, molto.»
«Allora forse non c’è niente di sbagliato nel farglielo sapere.» La psicoterapeuta sorride ancora una volta, richiudendo il taccuino. «Potremmo senz’altro lavorare sull’attaccamento che provi nei suoi confronti, se ritieni che sia eccessivo e non ti faccia stare bene.»
«Sì, per favore.»
«D’accordo.» La dottoressa afferra il foglio che Andrey le ha consegnato e lo ripiega, per poi spingerlo nella sua direzione. «Te lo restituisco. Ora sei tu che devi decidere cosa farne. La prossima volta mi farai sapere.»
Andrey fissa il pezzo di carta con fare scettico, poi lo afferra e lo infila rapidamente in tasca. «Va bene.»
eppure ha già preso la sua decisione, ancora prima di lasciare lo studio della dottoressa.
Andrey è un fascio di nervi mentre osserva Grigor leggere il foglio spiegazzato che gli ha appena consegnato.
Non è più tanto sicuro della scelta che ha fatto, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro; potrebbe strappargli il pezzo di carta di mano, dirgli che si è sbagliato, fuggire via come ha fatto in tante altre occasioni.
Ma non vuole. È da qui che desidera cominciare a lavorare su se stesso, affrontando la paura di essere abbandonato e di deludere qualcuno che ama.
Nota con stupore che gli occhi del bulgaro si inumidiscono appena e il cuore gli si strozza nel petto.
Grigor solleva lo sguardo dal foglio e lo osserva con una miriade di emozioni dipinte sul volto. «Vieni qui» mormora, la voce appena incrinata.
Andrey scivola con calma sul materasso, raggiungendolo con i battiti accelerati. «È imbarazzante, lo so, colpa della mia psicologa» borbotta, tentando di sminuire quello che è appena successo.
Grigor tuttavia non gli dà retta. Non appena se lo ritrova accanto, lo prende tra le braccia e lo stringe forte a sé. «Non è imbarazzante, cazzo. Andrey, hai scritto delle cose bellissime.» Affonda il viso tra i suoi capelli ramati e gli accarezza teneramente la schiena.
Andrey non può fare altro che cedere e ricambiare l’abbraccio, abbandonando la fronte contro la sua spalla. «È così difficile» sussurra.
«Però ce l’hai fatta. E quella frase che hai scritto, quella di Bruno Mars… wow. Sono davvero onorato di essere la tua luce nel buio.» Grigor si scosta e gli prende la testa tra le mani, costringendolo a guardarlo negli occhi.
Andrey sa che quello è l’unico modo efficace per impedirgli di sfuggire al contatto visivo, un po’ lo odia per questo, ma in fondo gliene è grato. Gli dispiacerebbe perdersi le iridi calde e morbide di Grigor.
«Sarò sempre qui per te, capito? A prescindere dal rapporto che abbiamo. Anche se un giorno dovesse cambiare, io sarò sempre qui.» Grigor si sporge per baciarlo teneramente sulla fronte. «Sempre. Capito?»
Ad Andrey viene da piangere, ma non è ancora pronto a cedere anche alle lacrime. «Grazie» sussurra.
Il bulgaro lo stringe nuovamente a sé, accostandosi al suo orecchio per mormorare: «Ti amo tanto».
Andrey si scioglie tra le sue braccia e subito si volta per cercare le sue labbra e farle sue, perché quello è il miglior modo che conosce per dimostrargli che ricambia pienamente i suoi sentimenti.
Si scambiano un bacio lento, profondo, tenero, le mani l’uno tra i capelli dell’altro.
Poi Andrey si scosta e avverte l’impellente necessità di parlare.
Con le mani sul viso di Grigor, sorride pieno di imbarazzo, ma non più spaventato. In fondo Grigor ha letto ciò che ha scritto su quel foglio, lo conosce e, a quanto pare, tiene immensamente a lui.
«Che c’è?» Il bulgaro ricambia il sorriso, stringendo una delle sue mani tra le proprie. Se la porta alle labbra e ne bacia piano le nocche, senza smettere di specchiarsi nei suoi occhi.
«Ti amo» esala Andrey. È un mormorio quasi indistinto, ma è certo che Grigor abbia capito.
Lo dimostra il suo sguardo ancora più luminoso e caldo, il modo in cui la stretta sulle sue dita si è leggermente intensificata, lo schiudersi sorpreso delle sue labbra.
Andrey ha paura, ha ancora una paura fottuta, ma in qualche modo si sente più forte che mai per il solo fatto di averla affrontata.
Poi Grigor torna a baciarlo con trasporto, spingendolo sul materasso per potersi stendere su di lui e continuare a divorargli le labbra.
Andrey lo accoglie, risponde con la stessa intensità, e sente che quello è un momento speciale.
Non perfetto, non clamoroso, non da film.
Semplicemente speciale, perché lui e Grigor sono insieme, finalmente liberi di aprirsi l’uno nei confronti dell’altro.
E per la prima volta non si pente di aver scritto quelle parole su di lui, di avergliele fatte leggere e di averlo reso consapevole di quanto sia importante per lui.
Di avergli confessato che è la sua luce nel buio.
Notes:
[11 dicembre – Prompt c) “If you ever find yourself lost in the dark and you can't see I'll be the light to guide you” (Count on me – Bruno Mars)]
Il titolo della storia significa “la mia luce” in russo, scritto però in caratteri occidentali.
Devo ringraziare tantissimo Soul per il suo aiuto, senza di lei non avrei potuto scrivere questa storia così come l’avete letta ^^
Chapter 12: Apathís
Summary:
Stefanos Tsitsipas' thoughts
Notes:
(See the end of the chapter for notes.)
Chapter Text
Stefanos si è immaginato tante volte che stare lontano da Sascha gli sarebbe risultato dannatamente difficile, ma ben presto ha capito quanto si sbagliava.
Ci ha semplicemente fatto l’abitudine.
Non è mai riuscito a sopportare la distanza da suo padre, ma in qualche modo ha imparato a gestire quella tra sé e il tedesco.
Buffo quanto sia diventato insensibile nel corso del tempo, come sia riuscito a rientrare in una routine in cui perdersi e mai più ritrovare se stesso.
Con Sascha era stato capace di esplorare sfaccettature diverse della vita, assaporando un briciolo di libertà che l’ha quasi illuso di meritare di più.
Invece adesso è qui, intrappolato, ancora.
È un debole, lo sa, così come ha sempre saputo che Sascha non avrebbe mai potuto far parte della sua vita. C’è sempre stato un velo di disperazione nei gesti di entrambi, e ora Stefanos capisce perché.
Entrambi sono sempre stati consapevoli che sarebbe finita così, che insieme non avrebbero combinato niente di buono, che il destino li ha uniti con il chiaro e unico intento di separarli.
Stefanos chiude gli occhi, sfinito. Si guarda dentro, si ascolta, e sente di aver fallito sotto tutti i punti di vista.
Un sorriso beffardo gli si dipinge sulle labbra quando ripensa all’ultima volta che lui e Sascha sono stati insieme: era così chiaro che sarebbe stata l’ultima, ma nessuno dei due ha avuto il coraggio di ammetterlo.
Però Stefanos ricorda che ha stretto Sascha più forte, l’ha tenuto incollato a sé più a lungo, ricorda che aveva paura che scomparisse.
E poi è successo davvero.
Sascha è scomparso dalla sua vita, stavolta per sempre.
Ed è strano che Stefanos sia riuscito ad accettarlo, a sopportare la lontananza, a farsene rapidamente una ragione.
Questo lo spaventa, perché significa che è diventato apatico e che ha appreso come vivere di abitudini, di automatismi, di meccaniche acquisite.
Ha imparato a fare a meno delle proprie emozioni così come si impara ad andare in bicicletta.
Ha rinunciato a essere umano da troppo tempo che ormai non si ricorda neanche più cosa si prova.
Osserva Sascha da lontano, lo vede seduto sotto il sole con un braccio intorno alle spalle di Taylor, li guarda interagire in quel modo tutto loro – Stefanos non ha mai avuto il permesso di essere così spontaneo con lui, di sfiorarlo come fa Fritz, di rivolgergli occhiate tanto intense in pubblico.
Ma ormai non gli fa più nessun effetto. Non è geloso, non è ferito, non è infastidito.
Non vorrebbe neanche essere tra le braccia di Sascha al posto di Taylor.
Vive tutto da lontano, dall’esterno, con distacco.
Ed è tutta colpa sua.
Notes:
[12 dicembre – Prompt b) Lontananza.]
Il titolo della storia significa “apatico” in greco.
Chapter Text
Un suono stridente squarcia l’aria, insinuandosi tra il frinire delle cicale e la densa umidità estiva.
Jacopo è seduto sull’altalena, all’ombra del grande pino, e si guarda intorno per cercare la fonte di quel rumore.
«Hai sentito?»
Jacopo si volta verso suo fratello, il quale gli ha appena posto quella domanda; Matteo se ne sta sdraiato sull’amaca e dondola lentamente, godendosi il fresco che solo quelle fronde rigogliose gli offrono.
«Sì. Cos’era?»
Matteo aggrotta lo fronte. «Non lo so, ora non si sente più.»
Il fratello maggiore non fa in tempo a concludere la frase che lo stridio si ripresenta, più acuto e simile a un verso animale.
Jacopo salta giù dall’altalena e ispeziona i dintorni con sguardo attento. «È un gattino?»
Matteo affina l’udito, inclinando appena la testa di lato. «Sembra...»
Jacopo si lascia guidare dai presunti miagolii, aggirando l’amaca e dirigendosi verso il limitare del giardino; raggiunge la tettoia sotto cui riposano le biciclette e lamento si fa più vicino.
Sente Matteo dirgli qualcosa ma non capisce le sue parole, concentrato com’è a cercare di individuare l’ospite inatteso.
Si sposta vicino alla bici rossa di suo padre, aggira uno dei pilastri che sostiene la tettoia e finalmente lo vede: un minuscolo gatto completamente nero.
«Matte, corri! L’ho trovato!» strilla, inginocchiandosi poco distante.
In pochi secondi suo fratello lo raggiunge, osservando la scena dall’alto: il micio è caduto dentro un secchiello abbandonato lì da chissà quanto tempo, uno di quelli che loro due usavano in spiaggia quando erano più piccoli, ed evidentemente non sa più come uscirne.
«Come ha fatto a infilarsi là dentro?» si chiede Matteo.
Jacopo alza gli occhi su di lui. «Dovremmo chiamare mamma?»
«Vediamo come sta» sentenzia Matteo, accovacciandosi accanto al secchiello. Allunga cautamente una mano e sfiora il pelo soffice del gattino, aggrottando la fronte. «Poverino, sta tremando un sacco.»
Jacopo si affaccia e imita il fratello, toccando piano il batuffolo terrorizzato che continua a stridere. «Come lo chiamiamo?» chiede in tono sognante, già immaginandosi di adottare quel tenero animaletto.
«Non possiamo tenerlo» dice Matteo con un sorriso, continuando ad accarezzare il gatto.
«Perché no?» protesta Jacopo, mettendo subito il broncio.
«Non siamo mai a casa, non potremmo accudirlo!»
«Però...» Jacopo si fa improvvisamente triste, però decide di ignorare deliberatamente ciò che suo fratello gli ha appena fatto notare e ripete: «Come lo chiamiamo?»
Matteo sospira e con cautela solleva il gattino, il quale sta ancora tremando ma sembra essersi un po’ tranquillizzato e forse sta cominciando a fidarsi di lui. «Vediamo se è maschio o femmina.»
Jacopo lo osserva voltare delicatamente il felino sulla schiena ed esaminarlo per alcuni istanti.
«È una gattina» dice Matteo con un sorriso. «Almeno credo.»
Jacopo salta in piedi ed esclama: «Allora la chiameremo Luna!»
«Luna. Mi piace. Però, Ja, non sappiamo neanche di chi è. E se la sua mamma la stesse cercando?» Matteo si porta la bestiola al petto e la culla piano, continuando ad accarezzarla. «E poi non possiamo tenerla, te l’ho già detto.»
Il biondo sta per protestare, quando dalla casa sentono chiamare a gran voce i loro nomi.
Corrono subito attraverso il giardino fino a raggiungere mamma Claudia, la quale li aspetta sulla soglia in compagnia della loro vicina, quella che a Matteo e Jacopo sta terribilmente antipatica.
Spesso li ha sgridati quando facevano troppo chiasso o quando calciavano il pallone fino al suo giardino, rompendole i fiori che tanto ama coltivare.
«Ah, allora l’avete trovato!» esclama con gli occhi che brillano.
Jacopo segue lo sguardo rapace della donna che si posa sula gattina che Matteo tiene in braccio e rabbrividisce.
«La signora Pamela stava cercando uno dei suoi gattini. Per fortuna non è andato lontano» spiega mamma Claudia, guardando con affetto i suoi figli.
Jacopo si para istintivamente tra Matteo e la loro vicina di casa e dall’alto dei suoi dieci anni esclama: «Luna non è un maschio, è una femmina!»
«Luna?» La signora Pamela ride, rivolgendogli un’occhiata accondiscendente.
«L’abbiamo chiamata così. Possiamo tenerla?» prosegue Jacopo imperterrito.
Sente Matteo sospirare alle sue spalle, ma non gli importa, vuole provare lo stesso a convincere sua madre e la loro vicina a lasciargli accudire la gattina.
«Ja, no, non possiamo. La gatta è della signora Pamela ed è molto piccola, ha bisogno di stare con la sua mamma. E poi voi due non siete quasi mai in casa, chi dovrebbe occuparsi di tutto?» risponde con fermezza Claudia, senza però perdere la sua consueta calma.
«Ma...» Jacopo mette nuovamente il broncio, voltandosi a osservare la piccola Luna che ormai se ne sta beata tra le braccia di Matteo. Si avvicina e la accarezza dolcemente, quasi come se le stesse dando il suo addio.
«Te l’avevo detto» borbotta Matteo.
«Sta facendo le fusa, ci vuole già bene» si lamenta Jacopo con un nodo in gola.
Poco dopo avverte una mano posarsi sulla sua spalla e si volta di scatto, ritrovandosi faccia a faccia con l’antipatica vicina di casa.
«Ho una proposta» esordisce la donna con un sorriso poco rassicurante.
Jacopo inclina il capo di lato e un ricciolo biondo gli ricade sulla fronte sudata. «Cioè?»
«Luna viene con me, la riporto dalla sua mamma, ma poi potete venire a trovarla tutte le volte che volete. Che ne dite?»
Matteo sorride e annuisce. «È una bella idea, grazie signora Pamela.»
Jacopo rimane più scettico, ma in fondo si rende conto che la loro vicina di casa è stata davvero gentile a fare quell’offerta. Stava già immaginando di dover salutare per sempre Luna, ma questo non succederà.
Così si lascia andare a sua volta a un sorriso colmo di gratitudine. «Davvero?» chiede conferma.
«Certo» replica la signora Pamela.
«Va bene!» accetta infine Jacopo.
«Ringrazia anche tu, Ja» lo incoraggia mamma Claudia, passandogli una mano tra i capelli.
Jacopo ringrazia velocemente, poi torna a godersi gli ultimi istanti prima che la signora Pamela prenda Luna e la porti via.
Quando i due fratelli si ritrovano nuovamente soli in giardino, Jacopo si sente un po’ malinconico. «Ci avevo sperato» borbotta.
Matteo gli picchietta sulla schiena. «Lo so, ma almeno potremo vedere Luna quando vogliamo. Più tardi le portiamo qualcosa da mangiare, va bene?»
Jacopo annuisce in silenzio.
«Adesso mi dai la rivincita a ping pong?» propone il fratello maggiore.
A Jacopo si accende la fiamma della competitività e solleva lo sguardo su Matteo. «Sì, ma tanto vinco io!»
«Non ci contare, schiappa!» lo prende in giro Matteo, correndo verso la veranda dove si trova il tavolo da ping pong.
Jacopo lo segue, già pronto a combattere per rimanere imbattuto per tre volte di fila.
Si è già dimenticato di quanto fosse triste fino a poco fa, ma Luna è ancora presente nella sua mente.
E soprattutto si rende conto che in fondo la signora Pamela non è poi così antipatica!
Notes:
[13 dicembre – Prompt b) Luna.]
Sono veramente entrata nel mood delle kidfics su Matteo e tutti coloro che hanno a che fare con lui. Stavolta mi è venuto spontaneo scrivere dal punto di vista di Jacopo, il suo adorato fratellino!
Sono troppo teneri, e alle prese con una gattina lo sono anche di più *-*
Chapter 14: The Great Performer
Summary:
Taylor Fritz/Alexander Zverev - AU
Notes:
This work is part of the Missy's Movies series, but you can read it even if you don't read the previous stories.
(See the end of the chapter for more notes.)
Chapter Text
Taylor è seduto sul pavimento, le ginocchia raccolte al petto e gli occhi stanchi fissi sull’imponente albero di Natale che torreggia di fronte a lui.
Le luci intermittenti sono spente, ormai la giornata lavorativa è finita e lui dovrebbe alzarsi, vestirsi e lasciarsi tutto alle spalle come al solito.
Ma oggi è più difficile del solito, oggi si sente davvero giù di morale, oggi l’insicurezza si è insinuata in lui con prepotenza e quando se n’è reso conto era già troppo tardi per scacciarla.
È la seconda volta che lui e Sascha lavorano a un film insieme e le cose non stanno andando come Taylor si aspettava.
Il primo film in cui hanno recitato, reclutati dalla mente geniale e artistica di Missy, li aveva fatti innamorare – o meglio, Taylor si era perdutamente innamorato di Sascha, e gli era sembrato che anche l’attore biondo ricambiasse i suoi sentimenti.
Poi oggi l’aveva visto protagonista di una scena erotica pazzesca, una delle più importanti del film, e tutte le sue certezze si erano frantumate.
Non aveva mai assistito personalmente a qualcosa del genere, non con Sascha come personaggio principale, e si era sentito stupidamente geloso.
Geloso della ragazza che stava su di lui e lo cavalcava con ardore e di come lui l’avesse fatta godere con giocattoli erotici pescati direttamente dall’albero di Natale – Missy aveva pensato proprio a tutto, come al solito, e non si era risparmiata dal creare una pellicola adatta alle festività più importanti dell’anno.
E ora si sente dannatamente ridicolo.
Entrambi sono porno attori, si sono conosciuti in quell’ambito, come può anche solo pensare che Sascha non avrebbe mai più fatto sesso con qualcuno?
E poi, Taylor non può dimenticarlo, è tutta finzione. Gli attori recitano, lui stesso lo fa.
Però oggi ha visto qualcosa di diverso in Sascha, qualcosa che ha reso la sua performance talmente brillante da consentire a Missy di girare senza troppe interruzioni. Era così coinvolto, così credibile, così realistico…
Taylor sospira e si stringe nella vestaglia, rabbrividendo per il freddo. Sa che deve alzarsi e prepararsi per tornare a casa, sua madre lo aspetta per cena. Eppure non riesce a distogliere gli occhi dalle palline dell’albero di Natale, dalle decorazioni scelte da Missy perché abbiano le più variegate forme, in particolare quella che richiama un enorme bastoncino di zucchero a forma di J.
Quello che Sascha ha usato con la loro collega.
Chiude gli occhi e seppellisce il viso tra le ginocchia. «Patetico del cazzo» mormora, tirandosi una ciocca di capelli.
Rimane in quella posizione per alcuni istanti, finché la voce di Sascha non spezza il silenzio.
«Sei ancora qui?»
Taylor non ha il coraggio di sollevare il capo, non vuole incrociare gli occhi di Sascha, si vergogna troppo e vorrebbe soltanto che lui se ne andasse.
Invece lo sente richiudere la porta e muoversi verso di lui – lo conosce abbastanza da sapere che non se ne andrà senza una spiegazione.
Poco dopo avverte la mano del biondo tra i capelli e si lascia andare a un sospiro.
«Perché non ti sei ancora cambiato?» sussurra Sascha, carezzandolo dolcemente sulla nuca.
Taylor non risponde, maledicendolo mentalmente: perché non se n’è semplicemente andato?
«Ehi.» Percepisce i suoi movimenti mentre Sascha si siede al suo fianco, il calore del suo corpo sempre capace di curare ogni sua insicurezza. «Che succede?»
Taylor si volta appena verso di lui, incrociando brevemente il suo sguardo. «Niente, sono stanco» mente con voce roca.
Sascha sposta la mano sulla sua guancia. «Dimmi la verità.»
Taylor sospira per l’ennesima volta e si porta istintivamente il pollice alle labbra, tentando di mordicchiarne l’unghia.
La mano di Sascha è rapida ad afferrare gentilmente il suo polso, gli occhi assottigliati appena. «Sai che Missy non sopporta che tu abbia le unghie mangiucchiate» lo rimprovera.
Taylor scrolla il capo e si divincola dalla sua presa, appoggiando la nuca contro la parete alle sue spalle.
Sente Sascha muoversi al suo fianco, poi in un attimo se lo ritrova accovacciato di fronte, le mani a stringere le sue e gli occhi chiari immersi nei suoi. «Dimmi cosa c’è che non va» gli intima con fermezza.
Taylor sa che non può sfuggirgli per sempre, ormai si conoscono da un po’ e il biondo sa perfettamente che lui non è in grado di mentire.
Esala un altro sospiro e guarda ancora una volta verso l’albero di Natale, oltre la spalla di Sascha. «Niente, è che oggi sei stato bravo. Credibile» ammette a voce bassa.
«Taylor» lo richiama Sascha, spostando una mano sul suo viso per imporgli di incrociare il suo sguardo.
Quando i loro occhi si incontrano nuovamente, a Taylor si appanna la vista e maledice le lacrime che stanno minacciando di tradirlo.
«Sei geloso di me? Sul serio?» Il biondo si lascia sfuggire una risata ironica. «Ti rendi conto di che mestiere facciamo?»
«Lo so, lo so, infatti mi sento già piuttosto patetico già di mio, non c’è bisogno di… ah, vaffanculo!» Taylor stringe le mani a pugno e si conficca le unghie nei palmi.
«Ehi, ehi, calmati.» Sascha gli passa le dita sugli zigomi e in quel momento Taylor si rende conto che ha cominciato a piangere.
In un attimo si ritrova stretto al petto del biondo, le sue mani ad accarezzargli piano la schiena e i capelli. Si lascia andare con il viso contro la stoffa morbida della sua felpa, l’umiliazione a bruciargli nella gola come un conato acido.
«Non devi mai, mai, mai dubitare di me. Mai» sussurra Sascha, baciandogli i capelli. «Sei la creatura più bella che io abbia mai conosciuto. Sei stupendo e io so di non essere abbastanza per te. Però quello che provo è reale e non ha niente a che vedere con il nostro cazzo di lavoro.»
Taylor ormai piange disperatamente, assorbendo le parole di Sascha come fosse una spugna, lasciandosele penetrare nel cuore come lame sottili, incapaci di ferire ma solo di iniettare calore.
Sascha gli prende il viso tra le mani e lo guarda negli occhi, baciandogli piano le labbra inondate di pianto.
«Ma ho visto come la scopavi, com’eri eccitato...» farfuglia, sollevando una mano per aggrapparsi alla sua felpa e attirarlo più vicino a sé.
Sascha scuote piano la testa. «Hai detto bene. L’ho scopata, è il mio lavoro. E anche il tuo.»
Taylor annuisce. «Lo so, però sembravi così coinvolto. Lei è bellissima e molto brava.»
«Bellissima, bravissima, certo. Ma non è te.» Sascha lo bacia ancora a fior di labbra. «Sul set io scopo, Taylor. Ma con te faccio l’amore.»
Un sorriso spontaneo si apre sul volto del moro, mentre le guance gli si arrossano per l’emozione. «Sascha, io...»
Un altro bacio lo zittisce, stavolta più intenso, con la lingua del biondo che cerca dolcemente la sua. Poi la mano destra del suo compagno scivola lungo il suo petto, scostando piano la seta della vestaglia per cercare il contatto diretto con la sua pelle.
Le loro labbra si separano, ma Sascha non smette di procurargli brividi in tutto il corpo con quelle lievi carezze.
I loro occhi sono incatenati mentre le dita del biondo si fermano a stringerlo appena tra le cosce; a Taylor manca il respiro, un mugolio gli sfugge dalla bocca e le cosce gli si schiudono in automatico in risposta.
«Io desidero te, amo te, voglio te» sussurra Sascha con lo sguardo sempre più intenso. «Gli altri sono colleghi di lavoro.»
Taylor continua ad ansimare sotto le sue carezze, lasciando anche alle sue parole di coccolarlo e rassicurarlo.
Con la mano libera, Sascha cerca la sua e se la porta a sua volta tra le cosce, sopra il tessuto dei pantaloni. «Lo senti che effetto mi fai?» prosegue, schiacciando le loro mani sulla propria erezione intrappolata. «Con te non ho bisogno di concentrarmi. E se riesco a performare bene è perché ti penso.»
Taylor geme piano, stimolato dalle dita e dalle parole del biondo, dai suoi occhi che continuano ad affogargli dentro.
«Mentre scopavo lei pensavo a te, a quello che avrei voluto farti… è stato decisamente più semplice.» Le palpebre di Sascha si socchiudono appena quando Taylor muove le dita sulla sua virilità, nonostante i due strati di tessuto che gli impediscono di toccarlo come vorrebbe.
Il moro porta la mano libera attorno al polso destro di Sascha, arrestando la sua tortura lenta ed esasperante. «Fermati, ti prego… non qui» lo implora.
Se c’è una regola non scritta che si sono imposti fin da subito è quella di non consumare mai il loro rapporto sul set. Vogliono cercare di tenere i due mondi separati il più possibile e non hanno mai fatto un’eccezione alla regola.
Sascha ridacchia e lo lascia andare, tornando ad abbracciarlo. Si accosta con le labbra al suo orecchio e sussurra: «Allora vestiti».
Taylor annuisce e cerca il suo sguardo. «Mi porti da te stasera?»
«Certo, ma a una condizione.»
«Quale?»
Sascha si rimette in piedi e gli tende la mano, aiutandolo a fare lo stesso. Con delicatezza richiude la vestaglia di seta blu sul suo corpo, legandola sul davanti con la cintura.
Lancia un’occhiata all’albero di Natale, poi torna a guardare Taylor in viso. «Promettimi che non dubiterai mai più di me. Non su questo, almeno. Non finché non te ne darò motivo.»
Taylor annuisce. «Te lo prometto. Scusa, è che sono insicuro. Perché sei un attore davvero eccezionale.»
«Ma con te non ho bisogno di recitare» lo rassicura ancora Sascha, rubandogli un altro rapido bacio. «Adesso cambiati. Mentre ti aspetto, penserò a cosa farti stanotte.»
Taylor sente un calore intenso irradiarsi dal bassoventre e raggiungere ogni fibra del suo corpo.
Sorride malizioso e si sporge per divorare le labbra del compagno con un trasporto carico di aspettative. «Non vedo l’ora di scoprirlo» conclude.
Notes:
[14 dicembre – Prompt a) Promessa fatta davanti all’albero di Natale.]
Oggi vi ho trasportato nell’AU che ho creato tempo fa, nel quale alcuni tennisti sono dei porno attori!
Sascha e Taylor si sono conosciuti in una delle mie storie, e da quel momento in poi si sono innamorati e hanno dovuto imparare a convivere con il mestiere di entrambi.
Ovviamente Fritzy aveva bisogno di essere rassicurato :D
Per scrivere questo racconto ho preso ispirazione anche da alcuni dialoghi della serie TV “Escort Boys” :)
Spero che questa storia vi sia piaciuta, se vi va fatemi sapere cosa ne pensate di questo AU che ogni tanto mi ispira per scrivere qualche storia un po’ diversa dal solito ^^

Nina_ST on Chapter 6 Mon 08 Dec 2025 09:30PM UTC
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Kim_EFP on Chapter 6 Mon 08 Dec 2025 10:32PM UTC
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